La legittima difesa non vale se si accetta la sfida
«Non è invocabile la scriminante della legittima difesa da parte di colui che accetti una sfida oppure reagisca a una situazione di pericolo volontariamente determinata» o alla quale «abbia concorso», nonostante la «possibilità di allontanarsi dal luogo senza pregiudizio e senza disonore». Lo precisa la Cassazione, che ha confermato la condanna a Umberto Stregapede, che nel 2015 a Roma ha ucciso il cognato, Stefano Petroni, con 31 coltellate. La Corte ha confermato la condanna a 6 anni e 2 mesi con l’attenuante della provocazione.
L’uomo invocava la scriminante della legittima difesa o, in alternativa, che gli venisse riconosciuto l’eccesso colposo di legittima difesa. Sosteneva che il suo intento non fosse affrontare il cognato, ma solo quello di mediare tra lui e la propria famiglia: lo attese sotto la propria casa disarmato al solo fine di farlo ragionare e di dissuaderlo da azioni aggressive, anche in considerazione del fatto che l’imputato sapeva dell’imminente arrivo dei Carabinieri.
Si sarebbe pertanto difeso spinto dal pericolo per la propria incolumità e per quella della propria famiglia.
I giudici di merito, come ricostruito in sentenza, hanno accertato che l’imputato era uscito di casa, per aspettare il cognato, «in un momento in cui il pericolo che Petroni realizzasse le minacce profferite per telefono non era attuale», per questo, concorda la prima sezione penale della Cassazione (sentenza n. 33707) aveva quindi «liberamente scelto» di affrontarlo, senza essere spinto dalla necessità di difendere i propri familiari, «implicitamente accettando qualunque conseguenza».
La vittima aveva con sé un coltello, che è stato poi usato da Stregapede per l’omicidio: «avrebbe potuto raccoglierlo e limitarsi a brandirlo invece di utilizzarlo».
Inoltre, Petroni, «caduto in terra colpito» non poteva «in nessun modo aggredirlo», ma l’imputato «aveva portato altri colpi più numerosi e complessivamente letali».