Insulta il superiore in chat reintegrato dalla Cassazione
Non si può licenziare nessuno perché su una chat ha scritto parole anche molto pesanti sul suo capo, compreso il caso in cui gli epiteti siano rivolti all'ad dell'azienda per cui lavora chi ha espresso l'opinione un po' «tranchant» servendosi dei social. Lo ha stabilito la Cassazione dando tutela alla segretezza degli scambi di opinioni tra followers di una stessa catena di contatti a circuito chiuso che è «inviolabile».
Dunque nel caso in cui in qualche modo, ad esempio tramite la manina di una spia, pervenga al datore di lavoro copia di una schermata di insulti a lui diretti, è da «escludere» ogni forma di «utilizzabilità» del contenuto di tale conversazione, afferma la Suprema Corte. Perché - spiegano gli "ermellini" - «i messaggi che circolano attraverso le nuove forme di comunicazione, ove inoltrati non ad una moltitudine indistinta di persone ma unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo, come appunto le chat private o chiuse, devono essere considerati alla stregua della corrispondenza privata, chiusa ed inviolabile». Così ha conservato il suo posto, di guardia giurata a Taranto, un dipendente della «Cosmopol» che nel gruppo Facebook del sindacato di base Flaica Uniti Cub aveva definito «faccia di m...» e «co...» l'amministratore delegato della società.