Brexit, convocato per oggi il governo
La bozza d’intesa c’è. Dopo mesi di negoziati snervanti sulla Brexit, Ue e Gran Bretagna hanno messo nero su bianco un dettagliatissimo testo «tecnico» per indicare il percorso di un divorzio più o meno amichevole fra Londra e i 27. E ora al governo conservatore di Theresa May non resta da percorrere che l’ultimo miglio, dimostrando d’avere il fiato sufficiente per superare gli ostacoli disseminati in patria: a cominciare dal via libera dello stesso consiglio dei ministri, convocato dalla premier in riunione straordinaria per oggi, alla quale sono invitati gli ambasciatori dei paesi europei.
La partita è «alla fase finale», aveva annunciato lady Theresa ieri di fronte alla platea del tradizionale Lord Mayor’s Banquet, ripetendo cocciuta di non voler gettare la spugna. Poi, a conclusione di una riunione di aggiornamento del gabinetto, un portavoce aveva evocato «un piccolo numero di questioni cruciali» da risolvere prima di poter formalizzare la fumata bianca. Sembrava il segno dell’ennesimo rinvio, sancito anche dalle cautele di Bruxelles, finchè in serata non è spuntato lo spiraglio della possibile svolta. Dapprima con l’anticipazione della tv pubblica irlandese Rtè. A seguire, con l’ufficialità di Downing Street: «Il governo si riunirà alle 14 (le 15 in Italia) per esaminare il progetto di accordo che i negoziatori hanno definito a Bruxelles e decidere le prossime tappe».
Non esattamente un bollettino di vittoria, ma la conferma che l’impasse era rotta. Sui contenuti della bozza, che stasera fa volare la sterlina su euro e dollaro, al momento le bocche rimangono cucite. Le indiscrezioni riprese dalla Bbc citano comunque tra i punti nodali la sanzione di impegni già noti: dalla tutela incrociata dei diritti dei cittadini ‘ospitì (arricchita nelle ultime ore dall’ok europeo a un regime senza visti, a patto che sia reciproco, per visitatori e turisti); al periodo di transizione con sostanziale rispetto dello status quo destinato a restare in vigore per 21 mesi (dal 29 marzo 2019, data di uscita di Londra dal club, a fine dicembre 2020); al conto di divorzio da 39 miliardi di sterline che il Regno dovrà versare negli anni. Mentre per districare in extremis il nodo di come mantenere aperta la frontiera irlandese, lo scenario proposto è quello d’una permanenza «temporanea» dell’intera Gran Bretagna nell’unione doganale, in attesa di un successivo accordo definitivo sulle relazioni future fra Londra e i 27 da raggiungere nelle intenzioni prima di far scattare il meccanismo di garanzia del backstop, visto dagli unionisti come una tagliola minacciosa sul legame fra Irlanda del Nord e resto del Regno.
Punti tutti da analizzare nel dettaglio e tutt’altro che blindati sul fronte interno britannico. Mentre a scanso di equivoci tanto l’Ue quanto il governo di Londra annunciano un’accelerazione dei piani di emergenza per affrontare l’incubo di un «no deal», un divorzio traumatico senz’accordo che sembrerebbe allontanarsi nel sollievo di entrambe le parti, della City e di mezzo mondo, ma che escludere del tutto ancora non si può.
In primo luogo May dovrà affrontare un consiglio dei ministri in cui non mancano le voci perplesse: di figure tradizionalmente euroscettiche (Liam Fox, Michael Gove e soprattutto le pasionarie Andrea Leadsom o Penny Mordaunt); ma anche di centristi orientati a destra quali i titolari degli Esteri, dell’Interno o della Difesa, Jeremy Hunt, Sajid Javid e Gavin Williamson. Il pressing di Downing Street è già iniziato stasera con alcune convocazioni anticipate, sullo sfondo di un clima che resta peraltro di sospetto o non di polemica rovente.
Sulla trincea delle opposizioni, e della nicchia di conservatori più eurofili, si fanno sentire i sostenitori del secondo referendum (o delle elezioni anticipate, opzione preferita dal leader laburista Jeremy Corbyn), decisi a non lasciarsi imporre in Parlamento la scelta secca fra l’accordo che la premier confida di poter sottoporre a questo punto al voto delle Camere entro fine anno e il temutissimo «no deal».
Su quella dei brexiteers ultrà tuonano invece Boris Johnson e Jacob Rees Mogg, pronti a far tremare la maggioranza da dentro: denunciando la bozza May come «un tradimento» della Brexit destinata a trasformare l’ex impero britannico, chissà per quanto tempo, in uno «Stato vassallo di Bruxelles».