Definì «orango» la Kyenge Calderoli condannato 18 mesi
Il senatore della Lega e vicepresidente del Senato Roberto Calderoli, 62 anni, è stato condannato oggi in primo grado dal Tribunale di Bergamo, la città dove vive, a un anno e 6 mesi, con pena sospesa, per diffamazione aggravata dall’odio razziale per aver definito «orango» l’allora ministro per l’Integrazione del governo Letta e oggi europarlamentare del Pd Cecile Kyenge, nel corso di un comizio alla festa della Lega Nord di Treviglio, la sera del 13 luglio 2013, davanti a un pubblico di un migliaio di persone.
I pm Gianluigi Dettori e Maria Cristina Rota avevano chiesto due anni, la difesa l’assoluzione. L’ex ministro non si era costituito parte civile e non sono dunque previsti risarcimenti di natura economica. La Procura di Bergamo aveva fatto partire d’ufficio il procedimento, anche se l’ex ministro Kyenge non aveva sporto denuncia. Calderoli oggi è stato raggiunto dalla notizia della condanna in ospedale, dove si trova ricoverato per essere sottoposto a un intervento già programmato e da lui stesso annunciato dal palco della ‘Berghem Frecc’, lo scorso 27 dicembre.
«Abbiamo vinto un’altra volta. Evviva evviva evviva. Il razzismo la paga cara: Roberto Calderoli condannato in primo grado ad un anno e sei mesi per avermi rivolto insulti razzisti»: questo il commento via Facebook dell’ex ministro Kyenge. «Anche se si tratta del primo grado di giudizio, e anche se la pena è sospesa - ha aggiunto l’europarlamentare -, è una sentenza incoraggiante per tutti quelli che si battono contro il razzismo. La decisione del Tribunale di Bergamo conferma che il razzismo si può e si deve combattere per vie legali, oltre che civili, civiche e politiche».
Calderoli era stato indagato quattro giorni dopo aver dichiarato sul palco: «Amo gli animali, orsi e lupi com’è noto, ma quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di un orango». In seguito si era scusato con l’interessata, offrendole anche un mazzo di fiori. Il processo era però intanto iniziato, con uno stop nel 2015, quando il Senato voto «l’insindacabilità delle dichiarazioni di Calderoli, in quanto opinioni espresse da un parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni», ovvero applicando la scriminante dell’articolo 68 della Costituzione, secondo il quale i membri del Parlamento, nell’esercizio delle loro funzioni, non possono essere chiamati a rispondere delle loro affermazioni. Il Tribunale di Bergamo aveva però fatto ricorso, sollevando la questione del conflitto tra i poteri dello Stato: un ricorso accolto dalla Consulta, che aveva riaperto il processo.
«Non ricordo parola per parola quanto ho detto, ma il mio intento - si era difeso Calderoli lo scorso luglio in udienza - era la critica politica al governo Letta, anche per un certo divertimento delle persone presenti, con toni leggeri. Dalle trascrizioni vedo che non ho mai usato la parola ‘orangò, bensì ‘oranghì, riferendomi a tutto il governo. Intendevo dire che si muovevano come elefanti in una cristalleria: se avessi usato quest’altro paragone, oggi non saremmo in quest’aula».