Vertice Ue sul Recovery Fund: con la mediazione Michel l'Italia ora vede rosa
Si avvicina l’intesa al vertice europeo sul Recovery Fund, che all’Italia porterebbe in dote ben 209 miliardi. Dopo una maratona negoziale record, il premier Giuseppe Conte strapperebbe così un piatto ancora più ricco (82 miliardi di sussidi e 127 di prestiti) rispetto alla proposta della Commissione di maggio, che destinava al nostro Paese 173 miliardi (82 di aiuti e 91 di prestiti).
Il traguardo però non è ancora raggiunto. Perché, come recita l’adagio europeo, «nulla è concordato fino a quando tutto è concordato». La cautela è di dovere, come sottolineato da Emmanuel Macron. Ma il «quadro per un possibile» compromesso c’è, ha evidenziato Angela Merkel. Una cornice disegnata a costo di un’estenuante mediazione, che la tedesca ed il francese hanno compiuto prendendo per mano il presidente del Consiglio Charles Michel, anche lui «convinto» che un risultato sia alla portata, nonostante «gli ultimi passi siano i più difficili».
Un punto fermo è stato messo sulla madre di tutte le battaglie, il Recovery Fund.
La dotazione complessiva del piano per sostenere i Paesi più colpiti dal passaggio del Covid-19 resta fissata a 750 miliardi. E dopo varie oscillazioni (da 500 a 450, a 400) l’asticella della quota di sussidi si è fermata a 390 miliardi di euro, con la Resilience e Recovery Facility - il cuore del Fondo per il rilancio economico che viene allocato direttamente ai Paesi secondo una precisa chiave di ripartizione - a 312,5 miliardi (un pò più dei 310 previsti dalla Commissione, un pò meno dei 325 della proposta Michel di sabato).
La sforbiciata riduce invece i trasferimenti spacchettati tra i programmi, 77,5 miliardi (rispetto ai 190 mld pensati dalla Commissione). Tra le altre voci, a farne le spese, anche il Fondo a sostegno della transizione green.
Il bilancio europeo 2021-2027 resta fissato a 1.074 miliardi di impegni. Ma vengono accontentati i Frugali con i rebate. Alla Danimarca vanno 322 milioni annui di rimborsi; all’Olanda 1,921 miliardi; all’Austria 565 e alla Svezia 1,069 miliardi.
Risolta anche la spinosa questione della governance sull’attuazione delle riforme dei piani nazionali che dovranno essere presentati dai Paesi per avvalersi delle risorse.
La chiave di volta è stato un super-freno di emergenza emendato, oggetto di un negoziato durissimo tra Giuseppe Conte e Mark Rutte, del quale il coriaceo olandese si dice ora soddisfatto.
In sostanza, i piani presentati dagli Stati membri saranno approvati dal Consiglio a maggioranza qualificata, in base alle proposte presentate dalla Commissione. La valutazione sul rispetto delle tabelle di marcia e degli obiettivi fissati per l’attuazione dei piani nazionali sarà affidata al Comitato economico e finanziario (Cef), gli sherpa dei ministri delle Finanze. Se in questa sede, «in via eccezionale», qualche Paese riterrà che ci siano problemi, potrà chiedere che la questione finisca sul tavolo del Consiglio Europeo prima che venga presa qualsiasi decisione.
Restano tuttavia ancora delle insidie. Per questo, nonostante gli slittamenti della plenaria per lasciar spazio al lavoro di tessitura, alla ripresa dei lavori i 27 leader si sono ritrovati ancora una volta a negoziare, con la prospettiva di scivolare nella notte e trasformare questo summit nel più lungo in assoluto della storia dell’Unione. Un vertice che verrà comunque ricordato come spartiacque per la decisione di mettere in comune il debito.
Il tema più controverso ancora ballerino è quello della condizionalità sullo stato di diritto, che vede l’ungherese Viktor Orban ed il polacco Mateusz Morawiecki pronti alla guerra totale pur di annacquare il più possibile qualsiasi legame tra esborsi finanziari dal Bilancio 2021-2027 e rispetto dei valori democratici fondanti.
Proprio su questo punto i Frugali potrebbero avere la tentazione di far saltare il banco, dopo aver cercato più volte di far deragliare i lavori della terza notte di vertice (quella tra domenica e lunedì) sviando il focus del dibattito su questo argomento. Un tema nobile che in caso di un «no deal» li salverebbe dall’onta pubblica di non aver voluto tradurre le dichiarazioni sugli aiuti economici in solidarietà concreta verso Paesi economicamente più deboli.