Il Senato dice sì al processo a Salvini per la Open Arms e lui se ne va al Papeete
Il Senato manda a processo Matteo Salvini, per la seconda volta in pochi mesi. Dopo la vicenda Gregoretti, la maggioranza di Palazzo Madama approva compatta - 149 sì e 141 contrari - favorevole anche Italia Viva, l’autorizzazione a procedere ai danni dell’ex ministro dell’Interno per il caso Open Arms.
Salvini viene a sapere dell’esito del voto, mentre si trova in macchina, verso Milano Marittima, lo stesso luogo, il celebre Papeete, dove proprio l’anno scorso staccò la spina al governo di cui era vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno.
Un segnale dal forte significato simbolico per dire che la Lega riparte da se stessa, dalla propria «comunità», consapevole di «stare nel giusto».
«Contro di me - commenta a caldo - festeggiano i Palamara, i vigliacchi, gli scafisti e chi ha preferito la poltrona alla dignità. Sono orgoglioso di aver difeso l’Italia: lo rifarei e lo rifarò». Quindi ripete le parole già usate in aula: «Vado avanti, a testa alta e con la coscienza pulita, guarderò tranquillo i miei figli negli occhi perché ho fatto il mio dovere con determinazione e buonsenso».
«Chi mi manda a processo - è il passaggio con cui ha chiuso il suo intervento - mi fa un regalo. Ci vado a testa alta convinto che il tempo è galantuomo».
La sua strategia difensiva è sensibilmente cambiata rispetto alle altre volte in cui si dovette difendere sempre dalle stesse accuse di sequestro di persona. In passato, il suo obiettivo era esclusivamente dimostrare che i suoi atti contro le Ong «erano collegiali del governo» e che quindi, con lui, andavano processati anche Conte e i ministri Cinque Stelle.
Stavolta, invece, secondo Salvini, siamo di fronte a una maggioranza che «sceglie la via giudiziaria e non quella democratica di libere elezioni per battere i suoi avversari politici».
Una linea di difesa collaudata, adottata, del resto, per decenni da Silvio Berlusconi. Ed è proprio il Cavaliere che, commentando il voto, ribadisce come «ancora una volta, l’uso politico della giustizia sia l’arma con la quale la sinistra vuole liberarsi degli avversari». «È lo stesso metodo - ricorda l’ex premier - che hanno usato contro di me. Con 96 processi e 3636 udienze». Sulla stessa linea anche la leader di FdI, Giorgia Meloni: «Quando saltano le regole dello stato di diritto - nessuno è più al sicuro».
Una svolta frutto dei due scandali che hanno reso ancora più complicato il sempre difficile rapporto tra politica e magistratura: le parole della chat di Luca Palamara ostili a Salvini e soprattutto la bufera giudiziaria che sta travolgendo la giunta lombarda, guidata dal Presidente leghista Attilio Fontana. Scandali che, sulla carta, hanno avvicinato la Lega e Iv, ambedue convinte che serva urgentemente una riforma della giustizia. Non a caso, infatti, proprio Matteo Renzi, oggi, era il sorvegliato speciale per capire se la sua linea «garantista» lo avrebbe spinto sino a «salvare» il leader sovranista. Alla fine Iv, cambiando idea rispetto al voto in Giunta, ha mandato a giudizio il segretario leghista. Renzi ha ammesso che l’altro Matteo «non agì per interesse pubblico» e quindi va processato.
Tuttavia anche lui ha definito il rapporto magistrati-politica «l’elefante nella stanza», arrivando a chiedere che a settembre «maggioranza e opposizione si siedano intorno ad un tavolo e inizino a discutere del rapporto tra magistratura e politica».
Invito però bruscamente respinto al mittente proprio dal “Capitano”: «Noto il silenzio dei Cinque Stelle, meglio delle supercazzole di Renzi. Vedo che ha come modello De Gasperi ma si comporta come uno Scilipoti qualsiasi. Parlare con Renzi e Bonafede è una cosa che fa ridere. Renzi - ha concluso Salvini - ha la credibilità di una pianta grassa, non gli credono nemmeno i suoi genitori».