La Cassazione: dare del "frocio" è sempre diffamazione
Confermata la condanna della trans che su Internet diffamò un consigliere comunale leghista dell’hinterland milanese
ROMA. Per la "stragrande maggioranza degli italiani" riferirsi a qualcuno definendolo "frocio", equivale a una diffamazione e non si può sostenere che la "coscienza sociale" è cambiata e accetta di buon grado questo epiteto come se non avesse alcun "carattere ingiurioso".
È questo il parere della Cassazione che ha confermato la condanna per diffamazione - la cui entità non è nota - nei confronti di un imputato transessuale processato dalla Corte di Appello di Milano e ritenuto "colpevole” con verdetto del 9 gennaio 2020.
Su Facebook, l'imputato che vive ed esercita la "propria attività" nel capoluogo lombardo, aveva sostenuto che un politico locale era un omosessuale e di aver intrattenuto con lui "un rapporto sessuale", sempre su Fb lo aveva chiamato "frocio" e "schifoso".
Il destinatario di questi 'contenuti', si era risentito ed era passato a vie legali. Senza successo, dopo le condanne di primo e secondo grado, l'imputato ha fatto ricorso in Cassazione sostenendo che le parole usate "avrebbero ormai perso, per l'evoluzione della coscienza sociale, il carattere dispregiativo". Ma gli "ermellini” - sentenza 19350 della Quinta sezione penale - non sono stati dello stesso parere.
"Le suddette espressioni - afferma la Suprema Corte - costituiscono invece, oltre che chiara lesione dell'identità personale, veicolo di avvilimento dell'altrui personalità e tali sono percepite dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana, come dimostrato dalle liti furibonde innescate, in ogni dove, dall'attribuzione delle qualità sottese alle espressioni di cui si discute e dal fatto che, nella prassi, molti ricorrono, per recare offesa alla persona, proprio ai termini utilizzati dall'imputato".
Così il ricorso della difesa dell'imputato è stato dichiarato inammissibile con condanna anche a versare tremila euro alla Cassa delle ammende.