Emergenze ambientali e classi dirigenti sempre in ritardo
Le classi dirigenti, generosamente stipendiate con denaro pubblico, dovrebbero avere come bussola del loro operato prima di tutto gli interessi collettivi.
La qual cosa probabilmente ha una scarsa compatibilità con l'affermarsi della figura del politico di professione che ormai domina la scena italiana. Prestarsi alla cosa pubblica significa adoperarsi per un breve periodo con un unico obiettivo che è rivolto verso gli altri, la generalità dei cittadini ai cui bisogni, diritti e doveri si presta un'attenzione pressoché esclusiva. Trasformare il "mandato" elettorale in una professione significa, invece, pensare non soltanto alla condizione dell'altro ma doversi concentrare continuamente anche sulla propria, per individuare i meccanismi di persuasione (in genere opachi e inclini al propagandismo autoreferenziale) che possano perpetuare la disponibilità di potere raggiunta, la visibilità sociale, la rendita di posizione, l'agiatezza eccetera.
Si potrebbe dire che fra le numerose controindicazioni e i pesanti effetti collaterali di uno scarso ricambio della classe dirigente c'è uno strutturale deficit analitico, una sorta di distrazione dalla realtà determinata dall'istinto di sopravvivenza al potere con annessi e connessi (relazioni lobbistiche comprese).
Ciò può forse spiegare in parte anche i motivi del sistematico ritardo che caratterizza l'azione della politica italiana (ma anche dei centri di potere industriale) di fronte a numerose emergenze e criticità che i cittadini pagano sulla propria pelle in misura anche pesante (si prendano, per fare un esempio, i dati sulla mortalità e sulla morbilità correlate all'inquinamento ambientale).
Tutti vedono ma nessuno guarda. E pochissimi agiscono. Giorno dopo giorno il quadro clinico peggiora eppure l'orchestrina del Titanic continua a suonare la sua marcia trionfale, di elezione in elezione, sospinta da meccanismi ormai consolidati che assicurano la permanenza al potere e mortificano il ricambio, l'accesso nelle stanze dei bottoni di energie e competenze fresche che vi rimangano poco tempo e poi a loro volta facciano spazio a nuove risorse.
Un Paese di sessanta milioni di abitanti è dotato di un serbatoio immenso di capacità e intelligenze; peccato che a dominare siano sostanzialmente le baronie. Democrazie demograficamente minuscole rispetto all'Italia, come quelle scandinave, presentano tassi di rinnovamento e di presenza giovanile (e femminile) in politica, negli organi esecutivi e finanche negli apparati tecnocratici che fanno impallidire i nostri (specie se li depuriamo della quota di miss e portaborse dalle dubbie doti, che vengono eletti solo perché nominati dai capi).
Il sistema dovrebbe saper catalizzare le forze sociali, motivando ogni singolo individuo in un gioco democratico virtuoso che finalmente diventi sostanza e non solo forma (e casta); se non è in grado di farlo, è destinato a perdere di vista il quadro d'insieme, a avvitarsi su se stesso, prigioniero (inconsapevole?) di una pomposa ritualità che tende alla (auto)conservazione, al costo di sorvolare su evidenze critiche incontestabili e polarizzare l'attenzione sociale su "priorità" predeterminate.
Si potrebbe pensare, per fare un esempio, al ponte di Messina o ai treni ad alta velocità in un Paese assaltato dallo smog cui servono prima di tutto buone ferrovie per gli spostamentin locali.
Ma senza andare così lontano, prendiamo un caso trentino: in questi giorni il vicepresidente della Provincia, Alberto Pacher, ha affermato che bisognerà chiudere l'acciaieria di Borgo Valsugana; ma ha anche ripetuto che l'impianto "è compatibile con la salute" (insomma non inquinerebbe troppo, nonostante le sue emissioni - peraltro accertate dal Corpo forestale dello Stato - si assommino al cocktail prodotto dal traffico in una valle stretta con scarso ricambio d'aria; ma tant'è).
Comunque sia, fra molti distinguo, si parla finalmente di conversione industriale.
Bene; ma non vi sembra un po' tardi?
I tempi evidentemente sono maturi solo ora, sulla scia delle inchieste giudiziarie che - dopo l'intervento di organi inquirenti extraprovinciali - hanno messo a nudo una serie di realtà preoccupanti (dalle discariche abusive di rifiuti tossici alle emissioni dell'acciaieria di Borgo, appunto).
Eppure da anni, forse da decenni, si susseguivano denunce, voci, soffiate... Senza contare gli stessi dati epidemiologici dell'Azienda sanitaria, che puntualmente collocano da anni l'alta Valsugana al vertice per la mortalità legata alle patologie respiratorie (nel periodo 2005-2007 il 10,3% dei decessi totali contro una media provinciale del 7,6%).
Paiono più che comprensibili motivi di inquietudine sulla parabola del Trentino di oggi; ma forse dovremmo invece avere fiducia eterna e crogiolarci sereni come futuri abitanti di una galattica "Metrolandia" nel 2050.
Purtroppo i fenomeni degenerativi in atto sono molteplici, dall'inquinamento ambientale al consumo di suolo, dall'urbanistica alla mobilità, e hanno ricadute negative sulla vita umana e sulla natura in generale che richiedono interventi coraggiosi e immediati.
C'è una ragione per cui dovremmo essere soddisfatti e sentirci rassicurati da classi dirigenti - specie se particolarmente "longeve" - e dai loro organismi tecnici che non arrivano sulle criticità sistemiche o che ci arrivano sempre troppo tardi?