Google condannata: fino a che punto può spingersi la libertà?

di Fabrizio Franchi

Fino a che punto può spingersi la libertà di Internet?
Si riassume in questa domanda la vicenda che ha visto la condanna di alcuni dirigenti di Google a causa della pubblicazione del video di un disabile minorenne vessato e insultato dai suoi compagni di scuola. Il video restò sul sito per due mesi e fu tra i più cliccati.
Il giudice milanese Oscar Magi, a distanza di due mesi dalla condanna, ha depositato le motivazioni della sentenza, 111 pagine, in cui discetta a lungo e si potrebbero riassumere in alcune frasi emblematiche: "Il mondo virtuale del web non può essere una sconfinata prateria dove tutto è permesso e niente può essere vietato e Google - quando consente agli utenti di caricare video in rete - non può nascondere le informazioni per il rispetto della privacy, soprattutto poiché svolge un'attività con un fine di profitto e un interesse economico, grazie in particolare ai link pubblicitari".
La sentenza di condanna dei tre dirigenti di Google fu, a suo tempo, duramente criticata anche dall'ambasciata Usa per la quale vige il "principio fondamentale della libertà
di Internet vitale per le democrazie".
Va detto che lo stesso giudice Magi fatica, nelle sue pagine, a dare una motivazione forte e univoca della sentenza di condanna, ammettendo che non esiste una legge precisa ad hoc e appigliandosi, alla fine, al fatto che l'informativa sulla privacy era "talmente nascosta nelle condizioni generali di contratto da risultare assolutamente inefficace per i fini previsti dalla legge. E Google, come gli altri provider, invece, ha un obbligo di corretta e puntuale informazione nei confronti di chi carica contenuti in rete".
Ma il vero nodo, come ammette lo stesso giudice è l'uso di Internet e la libertà. Scrive Magi: "Internet è stato e continuerà ad essere un formidabile strumento di comunicazione, ma ogni
esercizio del diritto collegato alla libertà non può essere assoluto, pena il suo decadimento in arbitrio".
Google dal canto suo ha rivendicato la sua libertà e ha contestato la condanna.
Il dibattito ora è apertissimo e il seguito di questa vicenda farà scuola per il futuro. Secondo alcuni, il giudice Magi ha di fatto applicato la legge sulla stampa del 1948, estesa con la "Mammì" del 1990 che coinvolge le tv, ma Google non avrebbe dovuto essere condannata perché non può considerarsi una testata giornalistica.
C'è però a mio avviso un "ma". I dirigenti di Google sostengono che in fin dei conti loro erano "dei postini" e non hanno responsabilità di ciò che è stato spedito e che loro si limitano a portare.
La differenza però è evidente perché Google, come ha scritto Magi, trae un profitto da questi video e perché questi contenuti non sono "chiusi", riservati, solo tra mittente e destinatario. Non avranno contenuto giornalistico, ma possono offendere comunque e sono visibili a chiunque.
Indifferentemente dalla pubblicazione di contenuti offensivi: che io sia per la strada, al cinema, o al bar, se offendo qualcuno è comunque reato. Non sarà diffamazione come per le pubblicazioni a stampa, sarà semplice ingiuria, ma resta sempre un delitto. Con l'aggiunta, nel caso di Google, di gravi violazioni della privacy. E anche se qualche "purista" della rete web si sentirà leso nella sua libertà, - questo è il punto centrale - mi spiace, ma resto convinto che Internet non può essere un luogo in cui dei volgari bulli - protetti dall'anonimato - possano sentirsi in diritto di martirizzare un disabile o qualsiasi altra persona.
Troppo comodo anche per Google ospitare qualsiasi vigliaccata e insulto alla civiltà e poi invocare "la libertà".

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