Uscire dalla preistoria
L’impressione è che, anche se esiste l’automobile, si voglia continuare ad andare in giro in calesse o a piedi. O, al massimo, si accetti di utilizzare la macchina ma stando sempre in terza. Negli Usa, nei Paesi del nord Europa, in Inghilterra, viaggiano già da tempo in sesta: magari chi sta al volante ha rifatto l’esame di guida, con sacrificio e sforzi, ma adesso sfreccia che è un piacere. E fa respirare polvere a chi non vuole capire che il futuro è già adesso.
Ho letto con grande interesse i due editoriali usciti sull’Adige nei giorni scorsi (qui e qui), che hanno prodotto un centinaio di commenti, tweet e condivisioni, oltre a lettere di risposta pubblicate sul giornale. Anche il Corriere ne parla con una video intervista ad una blogger (ecco il blog). L’argomento è di grande attualità e le opinioni sono molto differenti. Non voglio entrare nel merito di riforme scolastiche, stipendi di insegnanti o costi delle tecnologie. Ma siccome alcune delle frasi lette mi hanno fatto riflettere (e alcune sorridere), vorrei provare a dire la mia.
Il problema di base è che della tecnologia tutti ne parlano, tutti (più o meno) la usano, ma ben pochi ci capiscono qualcosa. Io per primo, sia chiaro: una delle cose che più mi fanno innervosire e mi deprimono è la consapevolezza di sfruttare al 30% (o anche meno) delle sue potenzialità il mio computer, il mio telefono o gli altri aggeggi informatici che possiedo. E, anche nel caso della scuola, vale questo ragionamento. Insegnanti e assessori conoscono nomi di siti e di device, ma sanno usarli? Conoscono tutte le loro potenzialità? Hanno l’apertura mentale per sfruttarli al meglio? Un professore che insegna greco conosce l’alfabeto, conosce i verbi, conosce autori e storia. E per questo è in grado di insegnare a chi non sa (ancora) nulla questa materia. Ma se non capisce niente o poco di informatica? Se ogni volta che un programma non funziona (il computer non sbaglia mai, siamo non che non sappiamo farlo funzionare!) bisogna andare in escandescenza e chiamare il «tennico»?
Leggo che compilare un registro elettronico porta via dieci minuti invece dei due di quello cartaceo. Credo sia così perché una penna sappiamo usarla benissimo, un computer no. E magari non sappiamo neanche che con qualche click e con qualche programmino si potrebbe avere un quadro completo e perfetto di assenze, presenze, voti, interrogazioni e quant’altro.
Spesso sentiamo parlare di digital divide: è il divario esistente tra chi ha accesso effettivo alle tecnologie dell’informazione (in particolare pc e internet) e chi ne è escluso, in modo parziale o totale. Ma penso che il digital divide sia anche il divario esistente tra la conoscenza di chi deve insegnare ad usare la rete e la tecnologia e quello che effettivamente conosce di questi strumenti. Internet, iPhone, iPad e compagnia sono dei mezzi. Dei mezzi che fanno sempre più parte della nostra vita, non possiamo negarlo. Dei mezzi che possono favorire e facilitare l’apprendimento. Lezione di storia: con Google Maps (o simili) un professore può far vedere le spiagge dello sbarco in Normandia e contestualizzare ciò che sta spiegando. Lezione di arte: ci sono migliaia di applicazioni per entrare nei Musei di tutto il mondo e vedere un’opera d’arte, ingrandendo ogni singola pennellata. E così via, per ogni materia.
L’impressione è che, anche se esiste l’automobile, si voglia continuare ad andare in giro in calesse o a piedi. O, al massimo, si accetti di utilizzare la macchina ma stando sempre in terza: ovvio, anche in terza si arriva al casello, ma perdendo tempo e creando colonna dietro di sé. Negli Usa, nei Paesi del nord Europa, in Inghilterra, viaggiano già da tempo in sesta: magari chi sta al volante ha rifatto l’esame di guida, con sacrificio e sforzi, ma adesso sfreccia che è un piacere. E fa respirare polvere a chi non vuole capire che il futuro è già adesso.