In Germania a scuola di buon senso

di Patrizia Todesco

L’occasione per riflettere è stata una vacanza studio dei miei figli in Germania. Uno scambio culturale a senso unico, nel senso che le scuole della Baviera, come accade ormai da anni grazie all’associazione trentina Agebi, hanno aperto le porte delle loro classi ai nostri bambini accogliendoli senza troppe formalità. Ed è proprio questa mancanza di formalismo e burocrazia che mi ha aperto gli occhi su come le cose possano funzionare anche meglio semplicemente con un po’ di buon senso. Vengo agli esempi, piccoli ma significativi.
La scuola è piccola, ci saranno 80 scolari in tutto, ed è ubicata in un paese a 800 metri di altezza. Potrebbe essere un qualsisi paese del Trentino. Fuori, ad aspettare i bambini per riaccompagnarli nelle loro fattorie dislocate a qualche chilometro di distanza dalla scuola, c’è una nonna-autista con il pullmino “pubblico”. Una bimba esce e spiega che oggi a pranzo deve andare dalla nonna, non a casa sua. Da noi ci vorrebbe tanto di giustificazione scritta, altrimenti nulla da fare. Lì, in Germania, la nonna-autista non fa una piega. Registra la nuova destinazione senza alcun problema. Altro esempio: al quarto giorno di permanenza di mia figlia in una prima classe, la maestra mi dice che quel giorno i bambini vanno tutti in piscina e mi informa che se porto un costume anche la mia bimba può andare con loro con il pullmino e sguazzare con gli altri bambini. Ripenso alle regole italiane, a quante carte devo firmare ogni volta per una gita, per uno spostamento minimo, per un’iniziativa. Qui basta una comunicazione orale. Niente formalità, solo buon senso.
E’ luglio, e anche in Germania, stranamente, fa caldo. I bambini più piccoli fanno scuola in giardino. La maggior parte di loro non porta scarpe ai piedi, è scalzo, ma non per questo la maestra li riprende.
Mentre aspetto fuori dalla scuola il termine delle lezioni il giardino è aperto. I fratelli più piccoli possano entrare a giocare. Ve ne sono alcuni appollaiati sulle staccionate. A nessuno viene in mente di farli scendere o di dire loro di stare attenti. Faccio un esame di coscienza e penso a come sono ansiosa e ansiogena io con i miei figli. Non più delle altre mamme italiane, ma sicuramente molto di più di quelle tedesche. Dopo sette giorni di scuola la maestra mi stringe la mano, mi dice che è stato un piacere ospitare i bambini italiani e che se il prossimo anno vorranno tornare li accoglierà volentieri. Nessuna richiesta al dirigente, nessuna autorizzazione.
Nuovo scenario, stesso modo di agire. Nella fattoria che ci ha ospitato, e dove convivono famiglie di italiani e di tedeschi, la differenze è lampante. Nella stalla i bambini delle famiglie tedesche scorazzano a piedi nudi, i nostri a malapena entrano con le scarpe. All’ora di pranzo, mentre scendo le scale per chiamare i bambini per il pranzo rigorosamente da consumare tutti seduti intorno ad un tavolo, incrocio un papà tedesco e il suo bimbo. Gli sta consegnando tra le mani il suo pranzo. Un panino con formaggio in una mano e un pomodorino nell’altra. «Viel spass», gli dice mentre il piccolo si dirige dritto dritto nel fienile suscitando grande invidia tra la comitiva di piccoli italiani.
Infine un ultimo plauso per la sanità. Nonostante i bambini italiani non vadano in giro scalzi per le stalle, mangino regolarmente e vengano continuamente ripresi su cosa è pericoloso o no, purtroppo a volte si ammalano. A Marktoberdorf, dove era la nostra fattoria, vivono circa 18 mila persone. Non c’è un ospedale, ma per far visitare una bimba italiana con la febbre non ci mandano in un’altra città o in un affollato pronto soccorso, bensì da un pediatra del paese. Qui alla segretaria forniamo la tessera sanitaria, aspettato 15 minuti e il dottore visita la nostra piccola malata. Ci fa perfino un test dell’urina all’istante per escludere un’infezione. In meno di mezz’ora siamo tutti a casa con una diagnosi e un farmaco che ci viene dato gratuitamente in farmacia. Anche in questo caso, meno burocrazia ma grande efficienza.

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