Agonismo esasperato
Sempre all’interno dei commenti ai post, mi è stato suggerito di parlare dell’agonismo esasperato. Proprio in questi giorni ho iniziato a leggere un libro che parla proprio dell’esasperazione dell’attività sportiva: sto parlando di “Open”, l’autobiografia di Andre Agassi
Sempre all’interno dei commenti ai post, mi è stato suggerito di parlare dell’agonismo esasperato. Proprio in questi giorni ho iniziato a leggere un libro che parla proprio dell’esasperazione dell’attività sportiva: sto parlando di “Open”, l’autobiografia di Andre Agassi.
Avere tra le mani un libro che inizia con le parole “Io odio il tennis” e che è stato scritto da uno dei più grandi tennisti della storia, non può che incuriosire anche il lettore più pigro di questo mondo. La vita di Agassi è stata caratterizzata dalla presenza di un elemento costante, o per meglio dire, di due elementi costanti: il tennis e la presenza di un padre dispotico che gli ha imposto di “amare quello sport”.
Il ragazzo infatti, come lui stesso racconta, è stato avviato al gioco in modo brutale da un genitore che vedeva presenti nel figlio delle doti che lui mai aveva avuto; sin da bambino Andre è stato allenato per diventare il numero uno al mondo, trascurando qualsiasi altra cosa, compresi affetti e studio.
La storia di Agassi è sicuramente un estremo in cui difficilmente ci si può ritrovare. Però contiene l’elemento dell’esasperazione dell’agonismo nella sua forma “più pura”. Il praticare uno sport solo perché imposto dall’alto, per di più da una figura di cui ci si dovrebbe fidare ciecamente, e praticarlo in tutte le ore libere del proprio giorno seguendo puramente l’obiettivo del risultato è la cosa più sbagliata che ci possa essere, almeno in età giovanile. L’allenamento, unito a capacità innate, in effetti può fare molto: Agassi è infatti diventato il numero uno del suo sport e uno dei migliori della storia. Ma di quanto divertimento può aver goduto un ragazzo che ha vissuto lo sport in questo modo? Che insegnamenti e valori ha potuto trarre? Probabilmente molto pochi.
Col senno di poi, qualcuno potrebbe anche dire che il padre ha “fatto bene” a sottoporlo a una tale cura tennistica, visti i risultati: ma il caso di Agassi è più unico che raro. Lo sport non deve essere imposto, ma deve essere scelto. Ma soprattutto, e qua mi riferisco in particolare agli under 16, il risultato non deve essere il fine principale: il divertirsi, lo stare bene, lo stare in gruppo nel caso degli sport di squadra, devono essere gli obiettivi che un ragazzo dovrebbe porsi. Nessuno dice che non sia importante vincere o perdere. Ma prima di tutto, se si pratica uno sport, bisogna divertirsi. E migliorarsi, sia tecnicamente che come umanamente. C’è chi afferma che ci si può divertire solo vincendo. Certo, sicuramente aiuta. Ma il divertimento secondo me arriva quando sai di avercela messa tutta, quando sai che stai spingendo l’asticella del tuo livello sempre più in alto; quando è un piacere giocare e non un obbligo o un’attività legata al mero risultato: per quello ci sarà forse tempo nelle categorie superiori.
Più che con i ragazzi, che queste cose le sanno “per natura”, bisognerebbe rivolgersi ai genitori. In particolare a quelli, e ne ho visti molti soprattutto nell’ambito calcistico, che vedono nel figlio una proiezione di ciò che non sono riusciti a fare nella loro gioventù. Parlo dei genitori che si improvvisano allenatori, coloro che spingono perché il figlio arrivi dove loro non sono riusciti. Senza domandarsi se effettivamente questo è ciò che effettivamente vuole il ragazzo/bambino.
Vorrei sottolinearlo: l’importante, fino ad una certa età, è il divertimento. Bisogna lasciare che l’obbligo del risultato arrivi quando il ragazzo sia già più maturo e consapevole dei suoi mezzi, quando ha capito effettivamente se è pronto a sobbarcarsi la pressione derivante dalla richiesta di alte prestazioni. Ma questo è un qualcosa che viene dopo, anche cronologicamente, il divertimento.
Se così non è, lo sport giovanile perde tutta la sua funzione sociale, diventando semplicemente un campionato professionistico in miniatura, dove i ragazzi invece che divertirsi vivono il risultato come un obbligo che incombe sulle loro teste.
Dell’agonismo c’è sicuramente bisogno, poiché spinge chiunque a migliorarsi giorno per giorno. Ma deve essere un qualcosa che autonomamente ci si sente di poter e voler esprimere e non un qualcosa che viene imposto dall’alto. Il rischio altrimenti è quello di trasformare lo sport in una gabbia, in una tortura, come è successo ad Andre Agassi.