Siamo in guerra, ma non con l'Islam
I tragici fatti di Parigi e la minaccia a cui l'Europa, tutti noi, siamo ormai sottoposti, ci confermano quanto alcuni sostengono da tempo, è cioè che siamo in guerra. Ma non è una guerra, come affermano taluni, contro l'Islam, e tantomeno contro i musulmani. È una guerra contro ogni attacco alla libertà in nome di follie totalitarie, da cui nemmeno il secolo ventunesimo è immune. Decenni di assenza di conflitti nel vecchio continente (a parte circoscritti focolai regionali) e di benessere e diritti crescenti hanno assuefatto e ottenebrato le coscienze ingenerando l'idea che quanto abbiamo sia scontato e irreversibile: la libertà, la democrazia, il vivere civile, la prosperità economica, la tranquillità sociale e la pace tra i popoli.
In realtà tutte queste sono conquiste che l'Europa, il mondo intero, hanno con fatica ottenuto e fatte proprie (e non sempre, e non per tutti). E richiedono continuo e costante impegno di ciascuno nella loro costruzione e difesa. È una battaglia che l'Europa ha già combattuto almeno due volte negli ultimi cento anni, lottando fino allo spasimo per la sopravvivenza dei propri valori di civiltà che ne sono a fondamento: il rispetto della persona umana, della sua vita, della sua libertà, della pluralità del pensiero. È avvenuto contro il totalitarismo nazista, vera ideologia di morte, che ha cercato di impadronirsi dell'Europa sovvertendone e annichilendone le sue radici, sterminando il pensiero che Atene, Gerusalemme e Roma hanno portato in dono alla civiltà umana, e che costituiscono il dna su cui la stessa idea di Europa si è formata. Anche allora c'era una guerra in atto, ed era una guerra di libertà. Non contro i tedeschi, né contro i fascisti di destra. Era una guerra contro chi attentava al cuore dell'Europa, per distruggerne l'esistenza, il vivere futuro, il concetto di uomo, di società, di felicità.
La stessa cosa è avvenuta contro l'altro totalitarismo del ventesimo secolo, quello comunista-stalinista. Anche quello aveva come fine l'annientamento dell'uomo, della civiltà europea come possibilità dell'individuo di piena realizzazione di se stesso, della dimensione personale come apertura spirituale all'infinito e all'eterno. Era una battaglia di sopravvivenza: o la libertà o la dittatura (meno del proletariato, più dei gerarchi di partito). Uno scontro vitale sul modello di vivere sociale e civile da realizzare, se fondarlo sul confronto democratico e plurale, o invece l'ideologia unica; valorizzando le capacità di ciascuno o invece distruggendole, demotivandole, appiattendole, uniformandole, per cancellare la libertà individuale e controllarne ogni suo palpito, riducendo l'uomo ad un niente, un semplice insignificante pulviscolo della massa, della classe, della rivoluzione. Non era una lotta contro i comunisti, né contro i marxisti-leninisti. Era una battaglia di libertà e di rispetto dell'uomo, contro un'ideologia che ha portato al massacro decine di milioni di persone.
Oggi l'Europa è chiamata alla stessa battaglia. Non contro gli islamici che sono 20 milioni solo dentro l'Unione europea, e altri 30 nel resto del continente. Ma contro chi, anche in nome dell'Islam (bestemmiando cioè l'Islam e Maometto), vuole sovvertire la civiltà su cui poggia il nostro vivere individuale e sociale, rispondendo con le stragi alla diversità di pensiero e di credo, con la segregazione e la lapidazione al rispetto paritario della donna, con la pena di morte alla diversità di comportamento sessuale, sostituendo la sharia al diritto positivo, e la teocrazia alla democrazia. Questo è lo scontro in atto oggi nelle nostre città, nelle nostre capitali, nei nostri Paesi, e non soltanto in buona parte del vicino Oriente e dell'Africa, a cominciare dall'altra sponda del Mediterraneo.
Dobbiamo sapere ed essere coscienti che è una battaglia che ci riguarda da vicino, che ci coinvolge direttamente, che richiede una convinzione profonda in tutti noi, sapendo che è sul vuoto di valori e di principi, sull'insignificanza esistenziale che l'Occidente mostra sempre più spesso nichilisticamente di professare, che fanno presa i fondamentalismi, le follie dogmatiche, l'irrazionalità e l'irresponsabilità dei comportamenti. Cioè, per usare le parole di Hannah Arendt, la «banalità del male».
Non può essere in grado di fronteggiare tale battaglia un continente piegato all'indifferenza, professante l'agnosticismo nella scelta fra ciò che è bene e ciò che è male, incapace di credere in qualcosa forse neanche in se stesso. Non può essere demandata solo al rafforzamento dei necessari controlli delle forze dell'ordine e inasprimento delle pene (magari anche quella di morte, uniformandoci così agli jihadisti più zelanti), la difesa della libertà e della democrazia, sale del nostro stare insieme e della ricerca della felicità.
Se un popolo non va più a votare perché ha perso il gusto della democrazia e del confronto politico; se non acquista e non legge i giornali perché non sa più approfondire i problemi accontentandosi dell'informazione fast food orecchiata sui display per strada o su qualche blog a senso unico; se non ha più valori in cui credere, per cui partecipare, ragioni per cui lottare, obiettivi per cui impegnarsi, i fratelli Kouachi e i Coulibaly hanno già vinto. E non c'è esercito che tenga, o controlli alle frontiere, o check in agli aeroporti che possano fermare i combattenti imbevuti di odio e di ignoranza. Se l'Europa non è convinta della forza dei valori su cui è nata e su cui, pur spesso tradendoli, ha saputo crescere ed essere motore di umanesimo, la partita è già decisa e non può esservi futuro. La stessa convinzione che va posta a chi in Europa arriva, ai nuovi europei magari di fede musulmana o di lingua araba, a chi proviene da altre visioni del mondo e della vita: questi sono i fondamenti su cui poggia il vivere comunitario, e questi vanno fatti propri anche dai nuovi arrivati.
Non ci può essere Europa senza distinzione fra religione e politica, fra fede e diritto, fra convinzione morale e comportamenti degli altri.
Non ci può essere democrazia senza accettazione di più parti, più visioni, più idee diverse capaci di confrontarsi per trovare un punto di equilibrio, forse una verità più alta, o almeno una verità possibile.
Non ci può essere pacifica convivenza, se non è accettata l'uguale dignità di tutti, credenti e non credenti, musulmani e non islamici, uomini e donne, etero e omo.
Non ci può essere libertà, anche religiosa, se non è accettata e tutelata reciprocamente quella dell'altro.
La questione oggi non è bandire i musulmani dall'Europa, ma far sì che chi vuole essere parte dell'Europa - che creda in Maometto, in Gesù Cristo o nel Dio di Abramo e Isacco - senta tali presupposti convintamente suoi, e li viva nel profondo.
La religione, le religioni, come le varie culture, storie, concezioni del mondo, possono essere una forza vitale di energie e valori positivi per far crescere un ethos comune. Del resto, la stessa democrazia, come pure l'abolizione della schiavitù, l'assistenza umanitaria e la cooperazione, hanno avuto alla loro origine una forte motivazione religiosa, che ha saputo sprigionare dinamicità positive nel corpo sociale. Ma le parti possono dar vita ad un tutto, solo riconoscendosi e accettandosi a vicenda nella loro diversità, e sforzandosi insieme di trovare delle risposte comuni alla complessità del vivere sociale. È quello che in Occidente viene chiamato «laicità». Che diventa garanzia di tutti, anche delle religioni.
p.giovanetti@ladige.it
Twitter: @direttoreladige