Kyenge e l'incredibile difesa di Calderoli
Kyenge e l'incredibile difesa di Calderoli
Se Roberto Calderoli della Lega non fosse, così come invece è, vicepresidente del Senato, il dire: «Roberto Calderoli diventerà vicepresidente del Senato» forse da qualcuno potrebbe essere presa per una battuta e come tale suscitare ilarità, una presa in giro bonaria. Ma dire, così come invece ha detto Calderoli: «Quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango», pare un tantino diverso, più un'offesa che una boutade, più un'opinione razzista che una mancanza di galanteria e come tale non suscita ilarità e nemmeno sdegno, ma un profondo senso di sgomento nei cittadini che pensano come si può cadere in basso.
Lasciamo perdere il buongusto, di quello si potrebbe parlare quando, ad esempio, Berlusconi fa dello spirito su Rosy Bindi tanto per far sganasciare quella corte che gli sta sempre addosso. Qui si tratta di altro, che porta a rinfocolare nella gente sentimenti fortemente negativi verso il diverso. Per paura o per convinzione non importa, certo è che risulta piuttosto facile parlare alla pancia delle persone, solleticandone i sentimenti più beceri. E si ha un bel parlare di solidarietà. Pare che non esistano proprio le basi culturali indispensabili per avviare il discorso.
E pure grave si può definire la reazione all'episodio da parte di chi deve giudicarlo all'interno delle istituzioni. Cecile Kyenge è una donna di colore, già ministro per l'integrazione nel governo Letta e attualmente europarlamentare del Pd. Nei giorni scorsi la Giunta delle immunità parlamentari, riunita per decidere il da farsi, ha deciso di non fare niente, cioè di archiviare, considerato che Calderoli non aveva inteso offendere, ma aveva semplicemente esercitato un suo diritto di esprimere un'opinione.
Ma esiste un limite agli insulti per i parlamentari oppure no? Cerca di difendersi il rappresentante del Pd in giunta, spiegando che quello non è un organo politico e che quindi non può esprimere valutazioni politiche, ma soltanto giudizi di natura giuridica. A questo proposito si fa ricorso all'articolo 68 della nostra Costituzione, là dove recita: «I membri del Parlamento non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle loro funzioni». Così uno può cavarsela sempre, anche «extra moenia»? Calderoli s'era espresso in quel modo durante un comizio nell'estate del 2013.
L'unico dissenso in giunta è venuto dal Movimento 5 Stelle, che non ha condiviso la certezza che le parole di Calderoli, in quanto politico, siano insindacabili. Probabilmente si sarà chiesto: ma esiste un limite? Così come probabilmente, in ritardo, ora si sta chiedendo anche il Pd, che pare voglia concedere l'autorizzazione a procedere, annunciando un voto contro Calderoli in aula. Meglio tardi che mai. È un periodo, questo, nel quale si parla moltissimo di libertà di parola e di opinione, soprattutto dopo i ben noti fatti tragici di Parigi, e sull'onda dell'emozione viaggiano i pareri più diversi. Ma di emozioni, appunto, si tratta. Ci sarebbe invece bisogno di confrontarsi seriamente, di riflettere, di discutere senza pregiudizi e ideologie, di parlare di dignità e di rispetto. Di prepararsi, di conoscere, di non approfittare dei ruoli. I membri della giunta conoscono certamente, fra le tante cose, una sentenza della 1° sezione penale della Corte di Cassazione. Vi si afferma: «Gli insulti non rientrano nel legittimo esercizio dell'attività parlamentare».
Altrimenti uno, solo perché eletto, può permettersi di offendere senza remore (la Kyenge infatti si è offesa e non solo a titolo personale), spacciando per metafora anche il più buzzurro dei termini. E la libertà d'espressione? Certo che sì, ci mancherebbe. Ma gli eccessi che fanno male, le insinuazioni, le allusioni, gli argomenti denigratori, gli attacchi gratuiti, oggettivamente, sempre eccessi rimangono.