Tracce N° 2 - 18 Agosto 2015
«Se parlo della gratitudine è perché ho bisogno di impararla»: così scrive Enrico Peyrett, acuto scrittore torinese, in un piccolo, prezioso libretto intitolato Elogio della gratitudine (Cittadella Editrice, 2015). Si tratta, per lui, di recuperare “un orizzonte”, di ritrovare “una strada da percorrere” che il modo di vivere di oggi delle donne e degli uomini ha ormai perduto, dimenticato, cancellato. Sembra che la gratitudine, come egli dice, sia diventata una “dimensione di esilio”, uno spaesamento, una parola straniera. Il fatto grave è che, a capo di tutto, non si sa più cos’è la gratuità, che è la vera radice della gratitudine. Nei rapporti umani è come se stessimo assistendo - e non senza rischio di contagio - a un processo, sempre più invadente e devastante, di mercificazione. Tutto è mercato, sembra la stagione del mercato, il grande mercato. Stagione di imbonitori che urlano per indurti a comprare in tutti i campi. Si riducono gli spazi della gratuità. Si cancella il “disordine” della gratuità, che racconta una sproporzione, annuncia una dismisura, apre a un’eccedenza. A tal punto si riducono gli spazi della gratuità che quando, per avventura o per grazia, stropicciandoti gli occhi, ti sembra di sorprendere un gesto gratuito, subito qualcuno va a smorzare il tuo entusiasmo, insinuandoti il dubbio: «no – ti dice – non è possibile, ci sarà un secondo fine, un interesse nascosto». In un delizioso racconto, che ci è stato tramandato, si parla di crociati che, nelle loro peregrinazioni, un giorno a Bassora si imbatterono in una donna, Rabi’ha, una mistica islamica, che se ne andava senza mai fermarsi, portando un secchio con dell’acqua e un altro con del fuoco. A chi le domandava perché se ne andasse senza soste, portando acqua e fuoco, rispondeva che portava acqua per spegnere le fiamme dell’inferno e fuoco per bruciare il paradiso, perché, diceva, nessuno più facesse il bene per meritarsi il paradiso o per timore dell’inferno, ma gratuitamente, solo per la gioia di farlo. È la gratuità che richiama la gratitudine, perché richiama il dono che, a sua volta, nella sua accezione più pura, sembra evocare un’esperienza che sorprende, che narra un “inatteso”, narra qualcosa che non era nei confini previsti del dovuto, non ti era dovuto. Nessuno, forse, ha saputo esprimere questa sensazione come Hannah Arendt, con quella sua splendida affermazione: «sono stata pensata, quindi sono»! Puro dono la sua vita e quindi, di converso, pura gratitudine, da esprimere fin dall’inizio dell’esistenza. Incantamento e riconoscimento del dono, che, a sua volta, custodisce un volto, il volto dell’altro. E quindi, a ben vedere, il vero dono non è la cosa, ma l’altro, il vero dono della nostra vita sono le persone. Essere pensati è il vero dono, è ciò che ci fa rinascere. La gratitudine trova casa soltanto all’interno della relazione tra le persone. Allora il presupposto è che il bene ricevuto nella vita (perlopiù anche nelle vite poco fortunate) è più grande del bene riconosciuto. Essere grati, vivere la gratitudine, è semplicemente riconoscere questa “verità” molto umana. Spesso riduciamo od offuschiamo questo riconoscimento con il molto lamentarci del male, dei limiti, delle insufficienze delle nostre condizioni. Tante volte, pur avendo salute, benessere, interessi, attività, affetti, siamo scontenti per qualcosa che ci manca, fino a maledire o brontolare sordamente contro la vita. Questa è ingratitudine, perché non sa vedere e riconoscere i beni ricevuti. La gratitudine è una virtù profonda, ben altro che una soddisfazione transitoria e un ottimismo superficiale: è una virtù provata dalle difficoltà e dall’oscurità dell’esistenza, è la capacità, sempre da ritrovare, di vedere che il bene è più resistente e più consistente del male; essa è un movimento all’interno di una relazione: si è grati ad altri, al prossimo che mi ha dato o indicato un bene, alla società, alla storia che mi ha condotto fin qui. Chi riconosce Dio è grato a lui. La gratitudine è un grado oltre la soddisfazione personale per qualche risultato. È grato chi si sa interdipendente, chi sa che tutti diamo e riceviamo, che nessuno è un’isola, che nessuno basta a se stesso. Come scrive Dietrich Boenhoffer, il grande teologo tedesco: “Per colui che è grato ogni cosa diventa un dono poiché sa che per lui non esiste assolutamente un bene meritato. La gratitudine rende la vita veramente ricca. È facile sopravvalutare l’importanza del proprio agire ed operare rispetto a ciò che si è diventati solamente grazie ad altri”