Parigi, Bologna, la musica. La vita e la morte

Parigi e Bologna: la musica, i concerti

di Matteo Lunelli

Ieri sera ero a un concerto. Tantissima gente, tanti ragazzi, musica che amo, che per me e per per tanti altri ha un significato che va oltre un riff di chitarra o un ritornello: una canzone che ricorda un momento, un’esperienza, un amicizia, un amore, una gioventù ormai passata.
Ieri sera ho comprato il poster dello show, ho mangiato un panino seduto sul bagagliaio aperto e ho fatto la coda per entrare. In coda guardavo, come sempre, le magliette degli altri ragazzi, scorgendo loghi e scritte ben noti.
Ieri sera ci siamo beccati un paio di plettri del chitarrista e una bacchetta del batterista: due pezzi di plastica e un pezzo di legno, per alcuni. Per tanti altri un ricordo, un simbolo, un valore aggiunto. Per noi, la seconda. E, sarà infantile, è vero, forse qualcosa di più.
Ieri sera, come in tante altre sere, abbiamo cantato, abbiamo urlato, abbiamo fatto battute, abbiamo creduto che sì, in quel momento "il cantante sta guardando fisso proprio me", abbiamo mosso le mani come fossimo dei batteristi provetti, abbiamo dondolato la testa su e giù a ritmo, abbiamo fatto finta di avere a tracolla una Shekter Telecaster nera. Abbiamo fatto quello che fanno tutti, insomma: abbiamo sentito della musica e ci siamo sentiti liberi.
Io ieri sera ero a Bologna, a sentire i Foo Fighters.
Da un’altra parte, praticamente in contemporanea, c’erano delle altre persone, che probabilmente avevano fatto e provato tutto quello che avevo fatto e provato io.
Quelle altre persone ieri sera erano a Parigi, a sentire gli Eagles of Death Metal.
In macchina, ieri mattina andando a Bologna, un amico mi ha detto: “A dicembre vengono a Treviso gli Eagles of Death Metal, andiamo?”. Da lì abbiamo iniziato a parlare di Josh Homme, dei Queens of the Stone Age e dei Kyuss. Tipici discorsi: “Ma l’ultimo album?; “Però dal vivo…”; “Comunque il batterista…”. Discorsi che hanno sicuramente fatto quei ragazzi a Parigi e quei ragazzi a Bologna, sia sui Foo sia sugli Eodm. Discorsi che fanno quelli che amano la musica, che amano sintetizzare in sigle i nomi delle band.
L’ha detto poco fa Bono Vox, dopo essere stato al Bataclan a portare dei fiori: “Potevo esserci io, potevi esserci tu in quel posto”. “Questa è la nostra gente”, ha aggiunto. Sì, quella gente sono anche io. E sì, Bono ha ragione: ieri sera io sarei potuto essere a Parigi e uno dei ragazzi di Parigi sarebbe potuto essere a Bologna. D’altra parte un fan dei Foo conosce i Them Crooked Vultures e quindi i Qotsa e quindi gli Eagles of Death Metal. Per questo sento quelle persone così pazzescamente e drammaticamente vicine. Magari qualcuno di quelli l’ho avuto vicino a qualche concerto del passato, quando si è in dieci in un metro quadro, si canta insieme, ci si aiuta, si divide quella poca e indispensabile acqua rimasta nella bottiglietta.
Così vicini, ma così lontani. E con una terribile differenza: ieri sera io sono uscito dal concerto. Alla fine ho incontrato vecchi amici, conosciuti ai concerti. Poi, mentre si camminava, indecisi se andare verso la macchina o verso l’uscita dove, probabilmente, sarebbe uscita la band, un messaggio. Allora si va alla macchina e si accende la radio. L’adrenalina di quasi tre ore di musica svanisce, immediata. Il viaggio di ritorno è senza musica. E senza parole.
Oggi i Foo hanno giustamente e inevitabilmente annullato il resto del tour, come tantissime altre band in tutta Europa. Avrebbero dovuto suonare anche a Parigi, tra qualche giorno. E magari uno dei ragazzi del Bataclan aveva già il biglietto in tasca. E magari avrebbe preso il poster. Forse pure un plettro, magari quello di Pat Smear, come il mio. Avrebbe pensato: “Il plettro di Pat, uno che suonava in uno dei più significativi album di sempre, l’Unplugged a New York dei Nirvana”. Cioè quello che ho pensato io. E qualcuno avrebbe comunque pensato che era solo un pezzo di plastica.
“Hanno ucciso gente che ama la musica”, ha detto Bono poco fa. Come me. Che però sono sano e salvo, e posso trovare un po’ di sfogo battendo i tasti del computer. Altri ragazzi che amano la musica, come me, non potranno mai più sentire della musica.
Vorrei chiudere come si conviene a un concerto, con una bella frase che sia come la chiusura con una grande canzone, una hit, una di quelle che tutti cantano a memoria. Ma come un concerto che si è drammaticamente chiuso prima del tempo, così chiudo questo blog così, senza una chiusura.

Ps: la bandiera francese sulla foto profilo e l’analisi geopolitica su Siria, Russia, Nato, immigrati, religioni, Francia, servizi segreti, moschee, Chiese, capi di Stato le lascio a chi è molto più bravo di me e non ha perso tempo per dire la propria opinione, non richiesta, sui social. Io mi ascolto un po’ di musica, passando da qualche ballata a qualche pezzo rabbioso e incazzato.

Ps: la foto in alto l’ho scattata ieri durante Big Me. Di solito faccio sempre un paio di foto al palco e alla band. Ieri, credo per la prima volta in decine e decine di concerti, no, ma senza un motivo particolare. Ieri ho fatto solo una foto, ho fotografato solo i ragazzi, “la gente che ama la musica”, come dice Bono. Non so perché, ma è andata così. Chissà.

Ps: quando si esce dai concerti resta sempre in mente una canzone, e poi la si canticchia per giorni. Ieri sono uscito con in testa These Days. Che fa più o meno così: "Uno di questi giorni  ti mancherà il terreno sotto i piedi. Uno di questi giorni  il tuo cuore si fermerà, suonando il suo ultimo battito. Uno di questi giorni gli orologi si fermeranno e il tempo non significherà più nulla. Uno di questi giorni getteranno le loro bombe e faranno solo silenzio. Non dire che va tutto bene".

Eccola. Alzate il volume. Cantatela.

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