Fare è innovare. Dalla birra artigianale a nuovi ecosistemi produttivi
Fare è innovare
Una presentazione nata sulla Rete. Così si è presentata l'occasione di parlare di "Fare è innovare" (ed. Il Mulino, 2016) con Stefano Micelli. Sul Web, valorizzando altre reti - quelle amicali e lavorative - altrettanto importanti. E da un tweet, che annunciava l'uscita del libro entro, in pochi giorni, e poche telefonate, si è arrivati alla definizione di una data buona per organizzare un incontro pubblico. Le filiere cortissime e insieme lunghissime delle relazioni costruite intorno a Impact Hub ci hanno aiutato e messo nelle condizioni - a cinque anni dalla pubblicazione del fortunato "Lavoro artigiano" - di tornare a discutere del mondo dell'artigianato, sapendone cogliere gli aspetti più caratteristici e inserendolo all'intero di un contesto globale che ne influenza le tendenze e che pure, ed è questo il punto centrale della riflessione di Micelli, ne viene anche fortemente influenzato.
È il caso della storia industriale da cui prende le mosse il libro. La fabbrica Moretti di Udine (produttrice di birra, dal 1859) viene venduta nel 1996 a Heineken, multinazionale olandese. Vittima della globalizzazione e delle logiche di mercato che impongono a livello mondiale l'uniformarsi dei gusti e l'adeguamento a modelli di produzione che si basano sul principio delle economie di scala. Un meccanismo apparentemente impossibile da neutralizzare e che eppure trova - nel racconto/studio di Micelli - un suo contrappeso (pur non ancora capace di determinare un vero e proprio cambio di paradigma, almeno dal punto di vista quantitativo) nell'emergere di una miriade di birrifici artigianali che l'autore identifica/esemplifica nell'esperienza di Baladin. Un birrificio che - per capirci - produce in un anno la stessa quantità di birra che 45 minuti di attività dello stabilimento Corona di Modelo in Messico garantiscono.
Ma allora perché dovrebbe interessarci l'apparentemente "improduttivo" microimpianto di Baladin e perché, allo stesso tempo, il colosso Moretti/Heineken si impegna nella realizzazione di una serie di nuove birre dal taglio territoriale: Toscana, Friulana, Siciliana, ecc.? Emergono nettamente due aspetti d'interesse: uno collegato alla produzione e uno al consumo. Il primo dipende dalla crescente democratizzazione per l'accesso alla tecnologia e agli strumenti di produzione. Basti pensare al fenomeno dei FabLab o della diffusione delle stampanti 3D. Il secondo deriva invece da una diversa consapevolezza dei consumatori. Alla ricerca di prodotti che "parlino" di territorio, che si propongano come autentici e che offrano un valore aggiunto di esperienzialità. Caratteristiche che, queste ultime, non si possono trovare nel prodotto industriale, necessariamente rivolto a una massa indistinta.
Chi è allora l'artigiano, lasciando per un attimo il mondo delle birre e allargando lo sguardo? È chi riesce - ci dice Micelli - "a rendere produttiva la propria autonomia e unicità, a mettere a valore le relazioni e la condivisione, a sedimentare e raccontare la propria riconoscibilità sociale all'interno di una comunità." Ne va della sostenibilità di ogni singola attività imprenditoriale all'interno di contesti - locali e globali - che non accennano a ridurre la propria complessità. Ne va della possibilità di immaginare veri e propri ecosistemi vitali (un tempo li avremmo chiamati distretti) che vedano l'azione comune di amministrazioni pubbliche, sistema formativo e attori economici che si pongano l'obiettivo di creare e sostenere la filiera della creatività artigiana.
Una proposta, per concludere. Terminata la presentazione ho fatto una camminata all'interno del Quartiere delle Albere e subito mi è venuta un'idea. Il quartiere progettato da Renzo Piano, ancora poco vissuto e partecipato, potrebbe essere il "laboratorio del fare e dell'innovazione" che manca alla città di Trento, riuscendo in questo maniera a dare anche un'identità a uno spazio urbano che ancora non ne possiede una. Farci un pensiero non costa niente...
Federico Zappini