Raccontare (e credere nel) #lavorobenfatto
Raccontare (e credere nel) #lavorobenfatto
Se non conoscete Vincenzo Moretti date una scorsa – non fermatevi alle prime pagine, perdetevi un po’ – al suo blog #lavorobenfatto. Leggete, non vi basteranno pochi minuti, quel Manifesto (sottoscrivetelo e condividetelo se vi convince) che è la fotografia più fedele di un approccio al lavoro frutto di una passione e una costanza rare da incontrare. Dentro questo archivio dell’Italia che lavora ancora (e bene) si riescono a leggere i tratti distintivi di un’esperienza – almeno per mia conoscenza – unica di narrazione, di rimessa a a fattor comune del valore sociale e comunitario del «far qualcosa pensando di essere il migliore al mondo». Un turbinio di parole, scritte e pronunciate, che tengono insieme – in un ipotetico Pantheon di riferimento – un operoso padre del sud e lo Steve Jobs che invitava gli studenti a unire i punti delle loro esistenze, il Morpheus di Matrix e il Pavese di «La luna e i falò». Parole che compongono storie, quelle stesse storie che «si prendono cura di noi». Che ci permettono di identificarci, di coltivare la speranza che sia possibile, che il lavoro – nonostante tutto – può essere altro rispetto ai voucher, all’ennesimo contratto precario, alla costante sensazione di incertezza e impossibilità di descrivere con serenità il futuro.
Vincenzo Moretti – sociologo presso la Fondazione Di Vittorio a Roma – è intervenuto all’interno dell’incontro di presentazione di #ipostidellavoro, contest narrativo organizzato dalla Cgil del Trentino rivolto ai più giovani. Ne ho approfittato per sottoporgli alcune domande che spaziano dal ruolo dello storytelling nella sua attività all’esigenza sempre più pressante di cambiare i paradigmi collegati al mondo del lavoro e a modello economico. Nelle sue risposte non solo le riflessioni acute di un attento osservatore dei fenomeni sociali ma soprattutto l’invito a «ruminare» (proprio come diceva solo pochi giorni fa Giuseppe De Rita) ciò che ci capita attorno e a “riabituarsi a pensare”, condizioni necessarie a restituire strumenti d’interpretazione e di scelta a cittadini e lavoratori.
Parlare di #lavorobenfatto al tempo dei voucher potrebbe apparire anacronistico. Da dove è nata questa tua urgenza? Quale la molla che ha fatto scrivere le prime righe di racconto, ormai arrivate a un numero di pagine sterminato?
Direi che le molle sono tante. La prima viene da mio padre operaio – avevo più o meno 10 anni – che una sera mi ha raccontato la differenza tra «il lavoro preso di faccia», quello fatto con rigore, passione, impegno, e «il lavoro ‘a meglio ‘a meglio», quello che invece no. Poi ci sono le cose che ho letto. Cesare Pavese che ne «La luna e i falò» fa dire a Nuto, rivolto ad Anguilla, che «l’ignorante non si conosce mica dal lavoro che fa ma da come lo fa». Primo Levi che trenta anni fa nel corso di una intervista a Philip Roth pubblicata da La Stampa ricorda che persino ad Auschwitz il bisogno del lavoro ben fatto era talmente radicato da spingere a far bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Più recentemente Walter Isaacson che nella biografia di Steve Jobs racconta del padre adottivo – Paul – che ha inculcato al figlio che bisogna fare bene anche la parte di dietro della staccionata, o dell’armadio, insomma anche la parte che non si vede. Poi ci sono le esperienze che fai, con i ragazzi all’università, con il viaggio di lavoro in Giappone in uno dei più grandi centri di ricerca del mondo, il Riken. Soprattutto ci sono le tante persone normali che incontri e in condizioni talvolta incredibili cercano comunque di fare bene quello che devono fare, non perché debbano avere un premio, un riconoscimento, ma perché è così che si fa. Infine c’è che ti guardi intorno e vedi che in questo paese si dà troppo valore ai soldi e troppo poco al lavoro, troppo a ciò che hai e troppo poco a ciò che sai e sai fare. Come ti ho detto mio padre era un operaio, aveva la quinta elementare, non sapeva scrivere in italiano corretto neppure le cose più semplici, eppure come dice Nuto era una persona colta, e lui ci ripeteva in maniera ossessiva che «non è vero che chi lavora è fesso» e «che i soldi sono la cosa più sporca, zozza e lurida che esiste al mondo». Proprio così diceva. Era esagerato, ho ancora nelle orecchie mia madre – la contadina – che quando glielo sentiva dire urlava «guarda che senza i soldi non si può fare niente, che i soldi sono indispensabili per vivere». Si, papà era esagerato, però il messaggio è arrivato, non solo a me, anche ai miei fratelli e a mia sorella. Ecco, è a partire da qui che un bel po’ di anni fa ho cominciato a raccontare il lavoro ben fatto, e sono assai contento di averlo fatto, oggi c’è una piccola comunità che si riconosce in esso, sinceramente lo trovo tutt’altro che anacronistico, direi che è la cosa più attuale, più urgente – come suggerisci tu – che possiamo fare.
Cos’è allora il lavoro oggi? Quali sono i tratti comuni che hai individuato dentro l’incredibile viaggio che hai intrapreso?
Il lavoro è naturalmente tante cose. Ha un ruolo troppo importante nelle nostre vite per funzionare diversamente. Dall’inferno al paradiso puoi usare qualunque parola in mezzo che c’è comunque qualcuno per il quale il lavoro è quella cosa lì. Naturalmente nella mia narrazione io ho fatto una scelta a monte quando ho deciso di raccontare certe storie di lavoro piuttosto che altre. L’ho fatto per due ragioni fondamentali: la prima è che sono convinto che il mondo va avanti grazie a queste persone, vale se pulisci una strada, se guidi un autobus, se fai un’operazione a cuore aperto, se progetti un centro direzionale; la seconda è che le persone che cercano di fare bene quello che devono fare vivono meglio. In qualunque circostanza. E qui le parole di Primo Levi che ho ricordato prima sono per me una pietra miliare.
«Lo storytelling è un bagliore passeggero nella lunga storia degli umani, di cui tutto fa parte. Storytelling compreso. Ma chiariamo. Chi fa storytelling fa un mestiere. Chi crede di vivere nel mondo creato dallo storytelling fa un errore. Chi vive scrive la storia. Chi studia la storia si pone al servizio della comprensione della vita. La storia è, insieme, il risultato della vita umana e la sua interpretazione. La pratica del discernimento, tra i bagliori abbaglianti e le strutture che indirizzano il corso della vita, è la prossima grande innovazione.» Sono parole di Luca De Biase, molto duro – a ragione – riguardo l’apologia dello storytelling. In che momento si supera la frontiera e si comincia a riscrivere la storia? Il Manifesto che proponi prova a muoversi in questa direzione?
Le tue domande sono bellissime. Però richiedono risposte meditate, lunghe, a volte troppo. Provo a cavarmela così: io che di formazione sono un sociologo e non uno storico come Luca, provo a tenere assieme le due cose, il «fare» dello storytelling e il «pensare» della storia. Naturalmente sto dicendo che lo faccio, non che non si possa fare meglio, e lo faccio tenendo nello stesso contenitore, #lavorobenfatto, il mio blog su Nòva, che è diretto da Luca – bella questa, no? – contenuti diversi: le storie, e le riflessioni sulle storie, il discernimento come dice Luca.
Vedi, proprio ieri sono stato invitato a raccontare di #lavorobenfatto, #tecnologie e #consapevolezza a un bel po’ di ragazze e di ragazzi dell’Accademia di Belle Arti, a Napoli, e Franz Iandolo, il coordinatore del corso di Nuove Tecnologie dell’Arte, a un certo punto mi ha detto che l’Artista è un po’ come lo Sciamano nelle società tribali, deve avere un orecchio così – il così era accompagnato da un gesto delle due mani a disegnare un ovale enorme – per interpretare e tradurre quello che avviene intorno a lui e comunicarlo ai componenti della sua comunità. Ecco, io cerco di fare un lavoro simile, di interpretazione e di connessione.
29. Il cambiamento riguarda tutti.
33. Non è tempo di piccoli aggiustamenti.
34. A partire dal lavoro e dal suo riconoscimento sociale va ridefinito il background, la tavola di valori, di riferimenti e di interpretazioni condivise necessari alle famiglie, alle comunità, ai paesi, al mondo, per pensare il proprio futuro in maniera più inclusiva e meno ingiusta.
47. È tempo di nuovi Omero, di nuova epica, di nuovi eroi.»
Quanto – quello che stiamo vivendo – è un tempo che necessita di cambi di paradigmi radicali. Dove si trovano gli spunti per queste ipotesi trasformative?
Come sai i paradigmi non li cambiamo noi. Li cambiano le scoperte scientifiche, li cambiano le migrazioni, li cambiano le guerre e le rivoluzioni, li ha cambiati internet. A volte in questa ossessionante corsa verso futuro perdiamo di vista il fatto che per capire il futuro bisogna guardare il passato. Non lo dice solo Morpheus nel fantastico discorso della caverna in Matrix Reload, lo dice anche Steve Jobs nel super citato discorso di Steve Jobs alla Stanford University quando parla dei punti da collegare, e naturalmente lo dice in maniera insuperabile Braudel.
4. Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma, grazie al lavoro delle donne, degli uomini e delle macchine.
6. Il lavoro è identità, dignità, autonomia, rispetto di sé e degli altri, comunità, sviluppo, futuro.
22. Lavoro ben fatto è intelligenza collettiva, bellezza che diventa ricchezza, cultura che diventa sviluppo, storia che diventa futuro.
Nel Manifesto si legge un costante richiamo valoriale al lavoro, una caratteristica costante e centrale di riconoscimento di sé in ciò che si fa dentro una comunità vitale, curiosa e partecipe. Una fotografia sociale e culturale che mi ha ricordato per certi versi l’ideale olivettiano delle comunità concrete.
Senza finire nella retorica o, ancora peggio, nell’apologia, Olivetti è sicuramente un bel punto di riferimento per chi ragiona su questi temi. Io però vorrei insistere sull’aspetto spinoziano della questione. A un certo punto nel Manifesto si legge: «Il lavoro ben fatto è bello. Il lavoro ben fatto è giusto. Il lavoro ben fatto conviene». Ecco, io penso che la mossa vincente stia proprio in questa idea dell’utilitas, in questa consapevolezza del fatto che per fare la pasta e fagioli ci vogliono comunque 25 minuti, e ci vogliono comunque gli ingredienti, e ci vogliono comunque l’acqua, il gas, il sapone per lavare le stoviglie, i soldi per comprare queste cose e il tempo per farle, e che tutto questo ha senso solo se lo fai bene, altrimenti è uno spreco.
Vincenzo Moretti a me sembra un incredibile tessitore di relazioni, che va ben oltre l’essere il selezionatore di un campionario sempre più vasto di racconti collegati al lavoro. Svolge un lavoro inestimabile – se qualcuno sapesse raccoglierlo ed elaborarne i tratti evidenti di innovazioni – che traduce buone pratiche (di cui lo storytelling e il web ci riempiono ogni giorno) in possibili politiche. Chi meglio di Vincenzo Moretti può quindi indicarci quali potrebbero essere i prossimi passi da muovere per riconciliare il tema del lavoro anche con i più giovani, la componente certamente più fragile del corpo sociale del nostro tempo.
Ecco, i giovani, qui davvero potremmo scrivere un libro. Loro sono spesso raccontati – mancanza di lavoro, cervelli in fuga, fine del lavoro che dura per tutta la vita, ecc. – come le vittime principali della nuova fase. Io in alcune mie storie ho aggiunto un problema in più, che ho definito come «rottura del rapporto tra lavoro e autonomia». Da troppo tempo per un numero sempre più grande e insopportabile di giovani il nesso tra lavoro e autonomia si è rotto, semplicemente, non c’è più. Perché se un uomo di 31 anni dipendente a tempo indeterminato di uno delle più grandi catene di librerie italiane guadagna meno di 1200 euro al mese in una città dove per affittarti due stanze ti chiedono 6-700 euro, l’uomo in questione è «tecnicamente» obbligato a ridiventare ragazzo e a rimanere a casa con mamma e papà, che almeno lì se la cava con il contributo mensile. E lo stesso accade a una donna di 40 anni, che lei invece ci ha provato, perché si, diciamolo, spesso le donne sono più determinate, più indipendenti, e dunque per 8 anni, mica un giorno, ha resistito con la sua stanza e un poco pur di avere la vita sua, fino a che anche lei ha ceduto, perché «Vincenzo non si può vivere soltanto per pagare l’affitto e le bollette e allora me ne torno a casa dei miei così almeno in estate ho i soldi per fare due settimane di vacanza».
Si tratta dunque di una rottura non riguarda solo l’esercito dei precari, che anche loro da soli bastano e avanzano, ma anche un numero sempre più consistente di giovani lavoratrici e lavoratori «stabili», che hanno un rapporto di lavoro regolato dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro di categoria, lavoratrici e lavoratori.
Tu mi chiedi come se ne esce. Potrei risponderti che se lo sapessi potrei diventare ricco, ma non lo faccio. Preferisco dire che se vogliamo fare sul serio dobbiamo avere coraggio, in Italia e nel mondo. Anche qui – per me – non è tempo di piccoli aggiustamenti. Bisogna avere il coraggio di ripensare in maniera radicale il rapporto tra tempo di lavoro e tempo di vita. Di ripensare in maniera radicale il concetto stesso di lavoro, ciò che che come società siamo soliti definire lavoro e siamo disponibili a retribuire come lavoro. Ancora una volta – per me – tutto questo non è solo giusto è bello, ma conviene. Conviene perché in un mondo dove le macchine saranno sempre più «produttori» ma non saranno «consumatori» con la situazione attuale ci saranno sempre meno persone in grado di acquistare le merci e i beni che vengono prodotti. Fammelo dire con una battuta che non è una battuta le persone per avere capacità di spesa dovranno lavorare di meno e guadagnare di più. Ti confesso che quando ci penso un po’ mi viene da sorridere a pensare quante volte da studente ho gridato nei cortei «lavorare meno, lavorare tutti», ma non sarebbe certo la prima volta che le cose che in una certa fase sono state considerate un sogno in un’altra fase sono diventate una necessità.
Ciò detto, e scusami per il modo approssimativo con cui l’ho detto, c’è anche una parte soggettiva della faccenda che secondo me bisogna declinare alla voce giovani.
Lo faccio in maniera rapida e volutamente provocatoria:
1. Non bisogna mai perdere il difetto di pensare. Come scrive Bertolt Brecht in una sua meravigliosa poesia, Generale, l’uomo ha il difetto di pensare. Questo difetto molti, troppi, giovani lo stanno perdendo, si accontentano di essere cacciatori di crediti invece di studenti, rinunciano troppo facilmente a far valere la loro opinione nell’ambito dello spazio pubblico, amano la superficie più della profondità, hanno smarrito il senso della fatica che ci sta dietro alle cose che usiamo, qualunque cosa, la sedia, il tavolo, il computer, lo smartphone.
2. Bisogna innalzare la soglia del resistenza, persino del dolore. Per me qui il massimo è Yoda che in Star Wars dice a Luke «Fare o non fare. Non c’è provare».
3. Bisogna darsi il tempo per fare il lavoro che ti piace fare. Il lavoro occupa così tanta parte della nostra vita che fare un lavoro che piace è una condizione fondamentale per vivere vite più felici e più degne di essere vissute. Naturalmente poi ci stanno le necessità, come mi ha scritto l’altro ieri una mia giovane e super laureata amica da Londra «pur di lavorare e di essere indipendenti ci si adatta a molte cose», però 2 – 3 anni per cercare di fare quello che vuole fare è – per me – un diritto di ogni giovane. Naturalmente, e torniamo al punto di partenza, se non sei brava/o e non sei disponibile a sgobbare tutto questo non è credibile.
Ciò detto aggiungo che lo so anche io che tanti ragazzi e, di più, ragazze, funzionano già così, ma come diceva uno dei miei maestri, un’altro di quelli con la quinta elementare, «i buoni si salvano da soli».
Credo sia tutto, a meno che non vogliamo scrivere un libro.
Federico Zappini
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