La neve e il fallimento del centralismo italiano: risolleviamo le Province
La neve e il fallimento del centralismo italiano: risolleviamo le Province
La pochezza della elaborazione politica si misura anche negli effetti sulla vita quotidiana di persone e comunità.
L’emergenza neve che ha travolto drammaticamente l’Abruzzo, le Marche e altre aree dell’Italia centrale è una fotografia di questa pochezza.
Uno scenario che ha messo a nudo il deficit di potere locale, una miriade di aree marginali di montagna abbandonati a se stessi.
Piccoli Comuni che non possono essere in grado di affrontare simili criticità, così come peraltro hanno problemi seri a garantire la permanenza di cittadini sul territorio, in un corto circuito tra carenza di servizi e difficoltà per le attività economicamente redditizie.
Si tratta della fotografia di un fallimento dell’architettura istituzionale imposta dal legislatore e dai governi degli ultimi anni, in particolare dall’esecutivo guidato da Matteo Renzi.
L’impossibilità di affrontare dignitosamente le nevicate abbondanti è la punta dell’iceberg in territori che da anni devono fare i conti con le conseguenze prodotte dai tagli al personale e alle finanze (decisi a Roma) sulla gestione delle strade, degli edifici scolastici, della sicurezza idrogeologica eccetera eccetera.
Parlo di comunità cui servono strumenti decisionali e finanziari per poter sopravvivere e programmare seriamente il proprio futuro.
Invece vivono in balìa delle decisioni prese da centri di potere lontani e largamente insensibili ai bisogni specifici, come lo Stato centrale e le Regioni. Vivono perennemente in difesa, alla rincorsa di soluzioni, spesso per evitare danni derivanti dal comportamento di questi centri di potere lontani.
A quanto pare gli organi esecuitivi e legislativi centrali adottano l’assunto delle grandi aziende, considerando (e trattando conseguentemente) le periferie montane del Paese come «aree a fallimento di mercato», cioè irrilevanti.
Insomma, un fastidio e un costo da tagliare, per chi propugna una visione efficientista dell’articolazione democratica.
Malgrado la Costituzione repubblicana imponga al legislatore di farsi carico delle necessità delle aree montane, i governi centrali se ne infischiano.
Si salvano, in questo scenario desolante, soltanto le zone che giustamente dispongono di uno status istituzionale differenziato, cioè le autonomie speciali alpine, come il Trentino Alto Adige e la Valle d’Aosta.
Non a caso territori vicini, come la provincia dolomitica di Belluno, da decenni si battono - scontrandosi con le lontane e insensibili Roma e Venezia - per ottenere una propria forma di autonomia.
In questo contesto emerge in tutta la sua urgenza la questione Province ordinarie.
Si è rivelata un disastro, come molte voces clamantis avevano predetto, la legge varata dal governo Renzi per depotenziare questo ente intermedio riducendole a strumento funzionale dei Comuni.
Una legge che cela malamente l’intento propagandistico di colpire una presunta casta che casta non è. La vera casta ha attuato una delle sue numerose manovredi distrazione di massa.
Nel contesto dato, ha prodotto direttamente effetti dannosi sui servizi necessari ai cittadini.
La logica fuorviante di questa riforma anti-Province, fortemente voluta dal ministro Graziano Delrio, dal premier Renzi e dalla «lobby» dei grandi Comuni, doveva arrivare alle estreme conseguenze con il varo della riforma costituzionale.
Ma il successo dei no al referendum dello scorso 4 dicembre riapre la questione, perché le Province ordinarie restano un livello istituzionale previsto dalla Carta fondamentale.
La questione, tuttavia, non sembra al momento indurre all’autocritica nessuno dei rètori dell’abolizione delle Provincia.
Lo stesso, peraltro, vale per tutti gli altri temi legati al referendum: non si intende cogliere il senso democratico del voto, che si può interpretare anche come un invito a elaborare nuove proposte per un’articolazione istituzionale realmente aderente alla necessità di partecipazione dei cittadini alla costruzione di soluzioni positive per la vita quotidiana di tutti.
Chiuso il capitolo di una riforma costituzionale che avrebbe drammaticamente mortificato la partecipazione e il potere locale, ora sarebbe coerente, dunque, interrogarsi seriamente sull’architettura del potere in Italia.
I fallimenti del neocentralismo renziano sono ben visibili, l’efficientismo populista (un po’ da uomo solo al comando, inquietante e di moda...) è una mistificazione o nel migliore dei casi un’illusione.
Di certo finisce con lo svilire la forza di una collettività nazionale e delle comunità locali che la compongono.
Ora c’è l’occasione di avviare un percorso serio di ripensamento della distribuzione del potere.
Movimenti politici e giornali che hanno schiamazzato per anni contro le Province, stavolta sarebbero saggi, per esempio, se indugiassero nell’analisi dello scenario reale. Se si chiedessero come si può interagire meglio, sul piano istituzionale, coerentemente con i principi e i valori costituzionali.
In proposito, le Province, non a caso introdotte nell’ordinamento, rivestono un ruolo strategico che andrebbe enfatizzato, per consentire ai territori di rafforzarsi, secondo le proprie esigenze, specifiche e in un contesto federale, per affrontare un’epoca densa di sfide difficili.
Si tratta di enti che in genere raccolgono territori omogenei, dunque in grado di costruire con larga partecipazione democratica politiche, legislazioni, strumenti funzionali aderenti alle necessità delle comunità locali.
Oggi, al contrario, ai cittadini è stato sottratto anche il diritto di eleggere il personale politico delle Province, ridotto a un’arida rappresentanza di consiglieri comunali e sindaci che si votano fra di loro.
Tutto va ripensato con coraggio e onestà intellettuale.
Poteri oggi in capo allo Stato e alle Regioni vanno trasferiti alle Province e in particolare a quelle presenti nei territori marginali di montagna.
Gli enti di area vasta in montagna sono i più bisognosi di risorse e libertà di manovra per attuare politiche in sintonia con le specificità sociali, climatiche e geomorfologiche di queste zone in cui vivere è più costoso e faticoso che in pianura o in riva al mare.
Lo Stato finora non solo ha ignorato il problema nodale ma ha avviato processi che degradano un quadro clinico già grave (un indicatore per tutti: il crescente spopolamento montano).
La classe politica, a cominciare da quella proveniente dalle aree «privilegiate» a statuto speciale, dopo aver deplorevolmente votato le varie riforme distruttive, ora è chiamata all’autocritica e a farsi carico di una svolta chiara.
Gli autonomisti filogovernativi a statuto speciale che hanno giocato con le autonomie altrui affossandole, oggi hanno l’occaisone del riscatto: possono spiegare ai confusi efficientisti del centralismo che la redistribuzione del potere in un’ottica federale è un’urgenza per favorire la costruzione di un’ossatura forte in tutto il territorio nazionale e epr reggere l’urto di un contesto globale complicato.
E se lo Stato deve cedere poteri, ancche le Regioni vanno ripensate al ribasso: va smantellato questo centralismo su scala locale, si tratta di un ente astrattamente legato al territorio di competenza ma in realtà sempre dominato da un grande centro decisionale metropolitano ai danni delle periferie.
Nelle aree montane (ma in parte anche altrove) la Provincia rappresenta una dimensione intermedia ideale non solo per la dinamica identitaria fra cittadini e territori ma per la potenzialità politica e funzionale.
Non va sottovalutato (com invece si è fatto con riforme da azzeccacarbugli) il ruolo provinciale di coordinamento e di supporto ai piccoli Comuni che rischiano di finire vittime del campanilismo, del dominio dei municipi più grandi, dell’incapacità progettuale (anche nel senso meramente tecnico) da cui deriva la difficoltà ad accedere ai finanziamenti nazionali o europei.
Sarebbe scandaloso se, malgrado tutto, la classe politica cercasse di eludere il dibattito su questo snodo della nostra convivenza civile.