Svolta biologica e ritardi trentini
L'ambizioso Piano Bio di Melinda, lanciato nei giorni scorsi ai 4000 soci produttori di mele, per arrivare in cinque anni dagli 80 ettari coltivati oggi a biologico a 300 (e quindi a 14.000 tonnellate prodotte rispetto alle 2.500 odierne), va nella direzione giusta. Il biologico nella grande distribuzione cresce a doppia cifra, con dei margini che i prodotti tradizionali non garantiscono. Secondo le ricerche dell'Università di Trento (professor Michele Andreaus), c'è una disponibilità del consumatore a pagare fino al 20% in più per i prodotti bio. Le stime Ismea calcolano in oltre 2,1 miliardi di euro il giro d'affari al consumo del bio in Italia nel solo canale domestico, senza considerare la ristorazione, i bar, le mense, in generale il «food service». Il biologico consente una tipizzazione del prodotto, legato alla qualità, alla salubrità e al territorio, che il coltivato tradizionale non garantisce più, specie di fronte alle nuove colture intensive dei paesi dell'Est, per esempio la Polonia nel campo delle mele. La virata verso il biologico è quindi obbligata, anche se il Trentino ci arriva con un certo ritardo.
Il vicino Alto Adige vanta oltre 1.700 ettari coltivati a frutta biologica, in Trentino (dati 2015) sono 470. Meno di un terzo del Sudtirolo comunque, che oggi rappresenta il distretto più grande di frutta biologica a livello europeo. Da noi va un po' meglio nel comparto della viticultura, dove i vigneti biologici superano i 700 ettari, mentre in Alto Adige si fermano a 258 (dati 2015). Questo grazie soprattutto al biodistretto della valle dei Laghi, che da solo copre oltre 500 ettari, sostenuto da produttori come la Cantina Toblino e Ferrari Spumante. Pur senza mitizzare il biologico e demonizzare le colture tradizionali, la strada è quella.
La sfida lanciata in valle di Non è particolarmente interessante, perché andrà a far leva direttamente sui coltivatori che dovranno convincersi culturalmente del passaggio, come scelta strategica per il loro futuro (oltre che per la loro salute). È più facile portare avanti aziende seguendo i metodi tradizionali con gli irroratori in azione a manetta nei periodi stabiliti, ma va compreso che è un mercato destinato a ridursi, al contrario di quello del biologico, e soprattutto non è più sostenibile con la vita degli abitanti, specie in un distretto a coltivazione intensiva della mela come la val di Non. Senza dimenticare l'immagine positiva che il biologico porta con sé, anche a livello di marketing. E comunque è indice di maggiore salubrità di un territorio, particolarmente rilevante per una regione turistica quale è il Trentino.
Tutto ciò, però, richiede una precisa e convinta visione politica, supportata da azioni innovative, che incidano sulle resistenze degli stessi coltivatori e allevatori.
Nel vicino Alto Adige, per esempio, gli incentivi economici bio della Provincia sono stati spostati dalla frutticoltura alla zootecnia per spingere pure in quel settore verso maggiori allevamenti bio. Oggi il 23% delle aziende zootecniche del Sudtirolo hanno iniziato la conversione al biologico, nella convinzione che ad esso si lega il prezzo del latte e dei prodotti rendendo sostenibile l'agricoltura e la zootecnia di montagna, con maggiore remunerabilità. Sul latte non si può competere con la Baviera, la Francia o i Paesi dell'Est. Questo in Alto Adige l'hanno capito. Da noi la resistenza al bio, invece, è ancora fortissima e le aziende di prodotti lattiero-caseari che hanno scelto tale strada si fermano a numeri risibili. Ecco perché la Provincia di Trento è chiamata a fare una scelta forte e decisa in questa direzione, sostenendo con tutti i mezzi a disposizione le aziende e i consorzi che imboccano la strada della conversione al bio, a cominciare dal sistema delle piccole stalle, con consumo di foraggio esclusivamente del territorio, spingendo al recupero dei terreni oggi abbandonati o invasi dal bosco, e quindi la ripresa dello sfalcio.
Qui ci si scontra con due ordini di problemi, che richiedono un intervento, forse anche legislativo, della Provincia: la frammentazione particellare e la riconversione a coltivato di terreni abbandonati. Questo vale non solo per la zootecnia, ma pure per la frutticoltura, gli ortaggi, le piante officinali, i terreni a noci e castagno. In valle di Gresta, l'orto biologico del Trentino, vi sono trenta ettari di terreni abbandonati e in preda al bosco (vedi inchiesta dell'Adige di ieri), con zone incolte sopra Pannone e Varano, nel comune di Mori e altre verso Bordala. Tutto questo mentre la produzione ortofrutticola della valle (all'85% certificata bio da Icea) non riesce a soddisfare le richieste del mercato. Oggi gli ortaggi della val di Gresta, venti tonnellate di prodotti bio ogni anno, hanno un marchio riconosciuto di qualità, ma non sono sufficienti.
Nel contempo il frazionamento della proprietà, l'abbandono da parte degli anziani, la mancanza di investimenti di potenziamento degli impianti irrigui (l'acqua è poca) frenano ogni ulteriore sviluppo delle coltivazioni, fonte di lavoro e di guadagno specie per i giovani che stanno tornando all'agricoltura.
La parcellizzazione fondiaria è un problema che ha tutto il Trentino, a differenza dell'Alto Adige. Va pertanto individuato e messo in campo un intervento strutturale, favorendo la ricomposizione fondiaria, se non in proprietà almeno in affitto, puntando così alla creazione di distretti bio. Le coltivazioni con metodo biologico richiedono infatti macro aree, non possono essere alternate da impianti tradizionali, pena il vanificare qualunque tipo di conversione. Occorre, pertanto, incrementare i bio-distretti. Questo vale per le mele, aggregando ed estendendo per esempio le aree già dedicate a bio di Denno e Vervò. Ma anche negli altri settori, arrivando a creare (e a codificare, per esempio, con marchi appositi) i bio-distretti del Trentino. Ormai si comincia già ad avere quello del vino in Valle dei Laghi, quello degli ortaggi in val di Gresta, quello delle mele in certe aree della val di Non, se andrà in porto il piano di Melinda (se cioè i soci ci crederanno fino in fondo).
Infine, un terzo ambito di intervento: la riconversione di terreni incolti e abbandonati. Negli ultimi 45 anni il Trentino ha perso sotto i colpi dell'urbanizzazione e della cementificazione massificata una buona fetta del suo territorio di fondovalle. A questo si è aggiunto con la fine dell'era contadina a partire dai primi anni Settanta l'abbandono dei campi. Su tale versante servono ora sostenute e incisive politiche provinciali, riportando al coltivato, specie biologico, appezzamenti che il bosco ceduo e a fustaia si era ripreso nel tempo, prati di montagna che non vengono più sfalciati o coltivati e giacciono in rovina, spezzoni di divisioni ereditarie inservibili da sole alla coltivazione. Solo così, con un piano provinciale ben preciso e strutturato in più interventi mirati e collegati, si può pensare di recuperare il terreno perduto sul fronte del biologico (anche nei confronti dell'Alto Adige), e diventare anticipatori di scelte che saranno sempre più indispensabili e strategiche.