La cultura è in trasformazione
La cultura è in trasformazione
CheFare è uno (non l’unico fortunatamente) dei luoghi culturali e politici più sani e ricchi di cui disponiamo in questo momento.
È parte - come diverse altre iniziative, principalmente dal basso e ai margini di quello che potremmo definire mainstream - di quella molteplicità di realtà che hanno nel proprio dna il «compito infinito» del pensiero utopico.
È una pentola che ribolle e che apparentemente non trova ancora - ma è solo questione di tempo - il sistema d’innesco per esplodere definitivamente, per contagiare ciò che lo circonda. C’è bisogno di lavorarci continuamente, in forme sempre più diffuse e collaborative, continuando a rimescolare l’impasto che anni di ricerca, relazioni e progettualità hanno reso ricchissimo e concentrato, senza per questo far perdere le particolarità dei sapori che in esso si combinano.
Con Bertram Niessen abbiamo dialogato a margine della presentazione del libro «La cultura in trasformazione» - ed. Minimum Fax, 2015 - che rappresenta un tentativo di fotografia dello stato dell’arte dell’esperienza di CheFare, realizzato attraverso la raccolta di interventi di alcuni protagonisti delle politiche culturali. Una fotografia che risulta mossa per la disattenzione del fotografo ma perché la materia trattata non riesce a rimaner ferma che per un istante e preferisce, piuttosto che essere fermata su carta, di essere vissuta e praticata nei contesti in cui nasce e cresce. Questo è il valore processuale dell’innovazione culturale e sociale che Bertram e gli altri autori di CheFare raccontano quotidianamente.
Partiamo dal luogo in cui si svolge quest’intervista. I coworking come spazio di partenza. La consapevolezza degli intrecci tra lavoro e cultura è ancora poco diffusa e forse non è ancora del tutto chiaro il ruolo che questi luoghi hanno e potranno avere in futuro. Che valore ha oggi la multiforme mappa dei contesti fisici di innovazione a base culturale? Quali sono i fenomeni che maggiormente caratterizzano l’Italia e l’Europa? Quali gli esempi dove le pratiche (nella migliore delle ipotesi buone pratiche) riescono a diventare prassi?
Negli ultimi anni, in Italia, c’è stato un incremento improvviso di nuovi «spazi per la cultura», che ha aggiornato il panorama avvicinando quello che succede nel paese a dinamiche già ampiamente diffuse in molti altri contesti europei (che hanno beneficiato, è fondamentale sottolinearlo, di politiche articolate finanziate prima della crisi). Da un lato c’è la sovrabbondanza di spazi in contesti urbani ai quali trovare nuove destinazioni d’uso, particolarmente evidente dopo la crisi del 2007/2008, con tutte le complessità che comporta dal punto di vista delle politiche pubbliche, delle dimensioni di potere incorporate nei piani regolatori, della speculazione finanziaria a base immobiliare, delle necessità di sviluppare nuovi modi di rappresentare le istanze collettive nella governance urbana. Dall’altro c’è la crescente centralità dell’immateriale (quindi anche del simbolico e, per estensione, del culturale) nei meccanismi di produzione del valore. I nuovi spazi per la cultura si trovano all’intersezione di questi piani, con tutte le loro complessità e contraddizioni. Si tratta di spazi ibridi che combinano funzioni e caratteristiche molto diverse in modi sempre nuovi: spazi per il lavoro (coworking, shared office, maker spaces ed officine); spazi per la distribuzione di prodotti e servizi culturali (librerie, archivi, spazi espositivi, scuole e biblioteche di nuova generazione); spazi per la leisure (bar, caffè, club, circoli musicali); luoghi di comunità (community hub, scade delle associazioni e centri sociali). Si tratta di un panorama ancora tutto in divenire, che va sempre contestualizzato negli scenari più ampi dei territori in cui si sviluppano i percorsi. Se la sostenibilità economica e la capacità di essere dei veri poli di produzione culturale tout-court sono in molto casi ancora da verificare, sicuramente ci sono casi in cui si stabiliscono meccanismi virtuosi: la costruzione di reti di mutualità con sistemi di micro-welfare parallelo; lo stabilirsi di piccole pratiche di filiera e di servizi complementari; gli esperimenti di dialogo con i tessuti produttivi, oggi in affanno, emersi nei decenni precedenti; lo sviluppo di nuove forme di socialità diffusa.
Partendo dalla considerazione che sta alla base del successo di bandi come CheFare o Culturability - ovvero che la cultura è relazione, è capacità di costruire comunità, di ibridarsi – come, secondo voi, vedendo anche quello che è successo negli anni di esperienza, questa si intreccia con la dimensione dell’innovazione, intesa come origine e allo stesso tempo conseguenza delle trasformazioni sociali?
Innovazione è solo un altro modo di chiamare le forme di produzione e riproduzione sociale, che caratterizzano inevitabilmente la vita umana. Senza trasformazione continua non può esistere la società. La peculiarità del periodo nel quale stiamo vivendo è che queste trasformazioni avvengono con una velocità senza precedenti, in tutte le sfere: economica, sociale, giuridica, politica, ambientale, culturale. Ragionare in termini di innovazione vuol dire allora provare a definire, per quanto possibile, strumenti per indirizzare e gestire questi cambiamenti. Questo può avvenire in cornici di senso e con relazioni di potere abissalmente diverse tra loro: top-down, bottom-up, peer-to-peer, in funzione elitaria o di inclusione politica, in chiave progressista o reazionaria.
Nell’attività di cheFare, al bando si sono progressivamente affiancate altre attività, nelle quali investiamo quantità crescenti di energie, volte alla ricerca, all’advocacy ed all’empowerment di comunità (da lì l’attività incessante dell’Almanacco sul nostri sito, le esperienze editoriali come «La cultura in Trasformazione», le ricerche come la borsa di studio «Spazi, lavoro e cultura», gli incontri continui con le comunità sui territori) ed alle sperimentazioni pratiche (come la rete di Rosetta e gli Open Data per la Cultura).
Questo perché siamo convinti che sia più che mai necessario lavorare criticamente sulla costruzione di senso dentro e attorno le nuove pratiche culturali. Non è possibile prendere l’innovazione come un «dato naturale»; al contrario, ha senso considerarlo come un campo politico di costruzione di relazioni, tensioni, alleanze.
Da dove nasce la scelta di parlare di innovazione culturale partendo da profili di professionisti che fanno lavori che faticano ad essere definiti o che hanno la continua necessità di essere ridefiniti? E soprattutto perché non avete scelto persone o esperienze più legate al mondo della produzione culturale in senso stretto?
Nonostante spesso durante gli incontri pubblici ci chiedano interpretazioni in questo senso, faccio fatica a vedere la questione principalmente in termini di conflitto generazionale. Eppure, è vero che c’è una fascia generazionale (diciamo, con cautela, quella dei trenta-quarantenni) che è rimasta fregata dalle trasformazioni culturali. Esclusi dai sistemi di garanzie che hanno caratterizzato per buona parte del Novecento le università, i giornali, le roccaforti tradizionali della produzione del sapere, dell’arte e della cultura, congelati in una serie di rapporti di lavoro precari e a termini, i professionisti della cultura sono sempre più indefinibili. Ma di chi avremmo dovuto parlare se non di loro (e quindi di noi)?
Nell’intervento di Christian Raimo - il più politico tra quelli ospitati nel libro, se così possiamo dire - traspaiono una serie di sentimenti che hanno a che fare sia con la non proprio idilliaca condizione culturale italiana che con la necessità di una presa di responsabilità, politica appunto, di tutti coloro che hanno l’ambizione di sviluppare processi di trasformazione. Dove si possono intravedere punti di emersione di queste spinte?
Anche questo è un tema che ci viene posto sempre più di frequente. Quello che stiamo vedendo è la proliferazione a livello locale di esperienze che ibridano - più o meno esplicitamente, più o meno consapevolmente - dimensioni sociali, culturali e politiche. Mancano ancora in modo pressoché completo soggetti politici a livello sovra-locale che siano in grado di farsi carico di queste istanze. Da un lato perché i mondi progressisti e della sinistra critica sono ancorati ad analisi, reti d’interesse ed habitus ancora assolutamente Novecenteschi (una sorta di «compimento degli anni ‘90», in salse politiche anche molto diverse). Dall’altro perché quasi tutte le nuove esperienze di base sono vincolate ad interessi (ah! la sostenibilità!) e letture del contemporaneo estremamente particolaristici, e non riescono a fare passi avanti in un’ottica di rappresentanza.
Federico Zappini
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