La crisi nera del calcio italiano
Meglio così. Sembra un paradosso ma la qualificazione della Nazionale ai Mondiali in Russia avrebbe, ancora una volta, nascosto la crisi nera che sta attraversando non solo il calcio ma tutto lo sport italiano.
Ci aveva illuso il Mondiale 2006 vinto in Germania con bravura e fortuna (ricordate il rigore di Totti negli ottavi contro l'Australia a pochi secondi dalla fine?). Nel 2010 e nel 2014 non fummo capaci di superare la prima fase, «giustiziati» dalla Slovacchia in Sudafrica e dal Costarica in Brasile. Sette anni fa si disse che, dopo la vittoria iridata, avevamo ancora la pancia piena; tre anni fa si diede la colpa a Balotelli e Prandelli, che peraltro ebbe il buon gusto di dimettersi subito assieme all'allora presidente federale Abete. In entrambi i casi la débàcle doveva essere l'occasione per ripartire dalle basi e ripensare un modello evidentemente non funzionante. Si fece poco o nulla. Col risultato di mancare la qualificazione a 60 anni di distanza dall'ultima mancata partecipazione.
Lunedì sera sono iniziati subito i processi, che finiranno soltanto tra otto mesi, a Mondiali finiti. Si potrà discutere tutta la vita dell'inadeguatezza di Gian Piero Ventura, tecnico che sarà pur riuscito a portare in serie A Cagliari e Lecce (sic) ma che a 68 anni, quando subentrò a Conte, aveva esperienza internazionale pari a zero. Si tornerà alla carica per chiedere, per l'ennesima volta, le dimissioni di Carlo Tavecchio, l'uomo che, con tutto il rispetto, viene dal mondo dei dilettanti e ha voluto Ventura al timone azzurro forse per risparmiare qualche soldino. La verità è che da rifondare c'è l'intero sistema.
L'approdo in finale di Champions League per due volte in tre anni della Juventus, peraltro poi regolarmente bastonata da Barcellona e Real Madrid, ha mascherato la pochezza del nostro calcio. Le società di serie A, sull'altare delle plusvalenze, non curano a sufficienza i vivai. Quest'anno in Youth League, la Champions delle squadre Primavera, la Juventus ha perso in casa 4-1 con lo Sporting Lisbona, raccogliendo soltanto 3 punti in 4 partite; il Napoli di punti ne ha 4, e in classifica è terzo dietro a Manchester City (12 punti) e Feyenoord (5). La Nazionale Under 21 non vince un Europeo dal 2004 e ha mancato le ultime due qualificazioni alle Olimpiadi. Anche le formazioni Primavera delle società di serie A sono piene zeppe di ragazzini stranieri: costa meno ingaggiare loro che far crescere fin dalle categorie minori i bambini italiani. Ai quali, magari, gli allenatori insegnano a gettarsi a terra simulando un fallo, invece di addestrarli a saltare l'avversario con un dribbling. E i genitori, in tribuna, danno l'esempio insultando il malcapitato arbitro di turno.
Se il calcio piange, gli altri sport di squadra non ridono. Nel basket l'ultima partecipazione ai Mondiali risale al 2006 (con una wild-card?), mentre alle Olimpiadi non andiamo dal 2004. Il volley, dopo il miracoloso argento a Rio 2016, l'anno scorso agli Europei è stato eliminato dal Belgio, l'equivalente della Svezia del football. Non stanno meglio gli sport individuali. Prendiamo la regina di tutte le discipline, l'atletica leggera: dai Mondiali 2016 siamo tornati con un bronzo della marciatrice Palmisano, poi il nulla.
In Italia manca la cultura sportiva. A scuola l'educazione motoria viene ritenuta, a torto, materia di serie B. Così alle elementari i bambini vanno in palestra un'ora alla settimana che talvolta salta per punizione, alle medie due ore e alle superiori i ragazzi, ormai compresa la scarsa considerazione di cui gode la disciplina, fanno a gara per autoesonerarsi accampando le scuse più improbabili.
Del resto lo sport è lo specchio della nazione. Non a caso Buffon, nell'intervista in lacrime subito dopo la partita, ha sottolineato che la qualificazione poteva avere un significato «importante dal punto di vista sociale». Invece no, l'Italia è questa. Un Paese in cui la meritocrazia è sparita, e così da una parte i nostri giovani laureati vanno all'estero per trovare un'occupazione soddisfacente e dall'altra si tiene in panchina Insigne, forse l'unico giocatore di talento rimasto in Italia; un Paese in cui domina la cultura dell'alibi, per cui nessuno ammette mai i propri errori, proprio come il ct Ventura che in Svezia ha incolpato l'arbitro e il gioco duro degli avversari; un Paese in cui si ricorre ai sotterfugi per andare avanti, e così ai concorsi si cerca la raccomandazione perché studiare purtroppo non basta e per conquistare i Mondiali il presidente federale Tavecchio telefona al presidente della Fifa Infantino; un Paese in cui si mette a zittire chi ha il coraggio di esprimere il proprio pensiero non omologato, per cui a far carriera sono gli «yes-man» e Pochesci, tecnico della Ternana in serie B, deve scusarsi per non venir deferito soltanto per aver detto quello che tutta l'Italia pensa, che sarebbe cioè bastata una squadra di Lega Pro per fermare la Svezia.
Intanto in Parlamento si fa melina per non approvare la legge sullo «ius soli». Eppure i nuovi italiani potrebbero forse essere gli unici ad aver fame e voglia di arrivare. La Svizzera in Russia ci sarà. Ha vinto lo spareggio con l'Irlanda del Nord. In campo da titolari, fra gli altri, Akanji, Rodriguez, Zakaria, Xhaka, Shaqiri, Dzemaili e Seferovic. Non propriamente cognomi elvetici.