Il gioco è politico (insegna Berlino)
Il gioco è politico (insegna Berlino)
Lo sport è politica. Lo si sospettava da tempo.
Ben prima del Milan del Cavaliere. Con il riavvicinamento al 38° parallelo tra le due Coree in vista delle Olimpiadi invernali di Seul, la storia diplomatica dello sport e del suo uso e abuso politico scrive un altro capitolo, che si intreccia con i missili nucleari e i nuovi scenari disegnati dall'irascibile, inimitabile, irresistibile inquilino della Casa Bianca.
I boicottaggi dei Giochi contro l'apartheid sudafricana, la guerra fredda trasferita in gare caldissime e lotte all'ultima medaglia, il doping comunista messo sotto accusa dall'antidoping capitalista, le squalifiche politiche della marcia ma anche della maratona, come nell'epico finale di Londra 1908 con Dorando Pietri piccolo corridore di Correggio sorretto dai giudici e poi deprivato dell'oro: sono ormai un lungo romanzo gli episodi in cui la morale olimpica è stata usata da dirigenti spesso molto immorali per fare del moralismo a fini di sfruttamento politico dell'Olimpiade, già sfruttata dalle multinazionali globali.
Non tutto è farina del diavolo, certo. Le Olimpiadi servono anche per mettere sotto i fari del mondo i diritti umani negati. Più spesso prevale però l'ipocrisia, che è uno sport non olimpico ma prediletto dalla cattiva politica.
Basti pensare alle Olimpiadi tedesche dell'agosto 1936. L'ex caporale austriaco della grande guerra è diventato cancelliere del grande Reich tedesco da tre anni e mezzo. Non ha ancora scatenato la guerra mondiale ma ha abolito ogni tipo di libertà e ha cominciato a costruire e a riempire i lager.
La sua feroce visione del mondo è nota, il suo razzismo e il suo antisemitismo, pure.
Il nero Jesse Owens, cittadino statunitense, gli dà quattro solenni schiaffi d'oro, battendo i campioni ariani indigeni (uno dei quali, il lunghista «Luz» Long, fraternizza scandalosamente con il «negro») ma a Berlino i capi sportivi di Usa, Francia e Inghilterra sono attenti a non irritare, fuori stadio, l'illustre ospite. Alcuni di loro, anzi, sono sinceramente ammirati dal vigore del nuovo regime tedesco: e ai maxiricevimenti «imperiali» di Göring e Göbbels si divertono, apprezzano menù e fuochi artificiali, brindano alla munificenza dei padroni di casa. Poco importa, a loro, che i due gerarchi nazisti siano peggio di Gog e Magog, mostri biblici maestri di violenza efferata. La festa olimpica non va guastata. E in fondo la squadra tedesca ha inserito in extremis una mezza ebrea - Helene Mayer - nella scherma, alibi sufficiente a fugare ogni sospetto, e si sa, gli ebrei sono dei vittimisti...
Il libro, avvincente, di Oliver Hilmes «Berlino 1936 - Quei sedici giorni d'agosto», raccontando la cronaca delle due settimane olimpiche, regala l'effetto straniante di una capitale europea dove sono stati temporaneamente sospesi gli eccessi fanatici e dove gli ospiti internazionali si possono perfino ubriacare in alcuni bar equivoci di gestori poco ariani e «swingare» al ritmo dell'odiato jazz inequivocabilmente «negroide».
Divi e divette, dandy e diplomatici sono bene accetti se non disturbano il manovratore. Una turista californiana - Carla De Vries - riesce addirittura, nella tribuna dell'Olympiastadion, a baciare il dittatore, che peraltro si ritrae con una smorfia da psicopatico: «un uomo affascinante», racconterà lei. Anche uno scrittore famoso come l'americano Thomas Clayton Wolfe non sente puzza di bruciato finché una connazionale che ha sposato un tedesco della resistenza clandestina, Mildred Fish in Harnack, non gli sussurra: è proprio sicuro che questa Germania non nasconda il suo volto criminale dietro le coreografie scintillanti dei giochi? Wolfe scriverà, alla fine, un racconto critico sul lato oscuro di Berlino e morirà il 15 settembre 1938, poche settimane prima di quella notte dei cristalli in cui la persecuzione antigiudaica getterà la maschera. Mildred sarà ghigliottinata il 16 febbraio 1943, come complice della cosiddetta Orchestra Rossa, due mesi dopo l'esecuzione del marito Arvid. Le ultime parole dell'ex ragazza del Wisconsin: «E pensare che ho amato così tanto la Germania».
Da Berlino 36 a Seul 18 ci sono 82 anni, due guerre mondiali, un mare di spirito olimpico e un oceano di morti ammazzati dallo spirito dell'odio. Il problema, grande, resta uno solo: le democrazie possono - anche con lo sport, o con la cultura, oltre che con le armi - «convertire» le dittature? La fratellanza universale dei giorni olimpici è comunque meglio dello scontro permanente: ma è solo un alibi colorato per un mondo che non riesce a smetterla con lo sport più antico, quello della sopraffazione?