Klara, la vita dentro le scarpe
Klara, la vita dentro le scarpe
Le scarpe significano tanto.
In certe situazioni, tutto.
In montagna, in guerra, in una fuga, possono dire la differenza tra la vita e la morte.
Il «vecchio scarpone» degli alpini non è solo una proiezione nostalgica dei tempi andati, ma il ringraziamento a un fratello muto ma essenziale, a un fedele compagno di marcia.
Le scarpe dicono tanto. Alcune volte tutto. Dicono se sei povero o se sei ricco. Dicono se ti arrendi al mondo o se lo vuoi dominare.
Molti ragazzi le indossano come segni di appartenenza tribale. Molte donne le calzano come armi di conquista.
I palestinesi della striscia di Gaza le perdono, scappando sotto il fuoco: ai morti, spesso, non restano addosso.
Per i funerali, per i nostri cari le scegliamo belle ma comode.
Le spazzoliamo con cura: devono fare una bella figura, anche al di là.
Le scarpe vecchie dei disegni di Gianni Rocca, quelle femminili e quelle maschili, si toccano, si amano, si baciano come prosecuzione di una passione inestinguibile.
Consuma le scarpe e scrivi, raccomandavano i vecchi giornalisti.
Se non hai buone scarpe, il Camino di Santiago ti fa male ai piedi: devi sceglierne un paio che ti siano sorelle, complici, alleate.
Nel sottopasso al ponte di Galata, Istanbul, così come a Newcastle a Timbuctù e a Mombay, i poveri vendono scarpe da ginnastica di marca contraffatta per i sogni dei poveri, molto bianche molto gialle molto blu: sono un colorato aiuto al salto, alla scalata sociale.
Gli inglesi non dicono «mettiti nei miei panni» ma «nelle mie scarpe». «E capirai che noia è vederti», cantava Bob Dylan.
«Le scarpe di Klara» è il nuovo libro, scritto per la prima volta direttamente in italiano, di Wolftraud de Concini (Publistampa), già autrice del bilingue «Boemia andata e ritorno» sulle sue radici familiari di minoranza tedesca nei Sudeti.
Questa è la storia breve (fatti veri o plausibili, dettagli e pensieri immaginati) di una delle tante donne spazzate via dall’orrore della Shoah. Una ebrea boema, Klara Beck, nata nel 1904 a Pilsen, uccisa nel gennaio 1942, a 37 anni d’età.
Di lei l’autrice, abitando per un po’ nella attuale Repubblica ceca dove - come Klara - è nata, ha recuperato poche notizie, qualche immagine, un paio di lettere. Come all’autrice, a Klara piaceva capire e fotografare il mondo, viaggiare, insomma vivere.
La sua vita è cambiata con un viaggio da Praga a Terezin, per una certa fase il lager-modello dei nazisti, ad uso propaganda: con orchestrina e feste danzanti.
La sua vita è finita con un viaggio a Riga, Lettonia, in vagone blindato. Prima di essere spogliata, mortificata, «cosificata», gettata in una fossa comune nel gelo dell’inverno. Senza vestiti. Senza le scarpe.
Wolftraud De Concini «vede» Klara ma è colpita soprattutto dal dettaglio - apparentemente secondario - di quelle scarpe. Sono scarpe che dicono un’epoca e la voglia di viverla. Sono scarpe con il laccetto, di moda negli anni Trenta, tra le signore della buona società.
«Il cinturino in pelle è spezzato. Sbrindellato. Il piccolo bottone rotondo in avorio strappato. Il cuoio della tomaia graffiato. Bucato. Sporco. Infangato. Rotto per la camminata nella neve. Sono trenta, trentacinque gradi sotto zero».
Il libro comincia dalla fine, tragica, della protagonista. Comincia con questo zoom sulle scarpe di Klara, che ci racconta bene l’assurdità di ogni tortura inutilmente disumana.
Le scarpe col laccetto non si addicono alla neve, non si addicono alla morte.
Gliele aveva regalate l’architetto Adolf Loos, 34 anni più vecchio, che la sposò nel 1929 e la cacciò neppure due anni dopo: ma Klara era ancora una giovane signora che poteva pensare alle scarpe, ai salotti, ai libri, ai viaggi, al futuro.
La descrizione delle scarpe - «scarpe leggere in pelle marocchino», modello Mary Jane, diventato di moda nell’America degli anni Venti, soprattutto tra le signore appassionate di charleston - ritorna più volte, nel piccolo libro di de Concini (scritto a frasi brevi e frammenti di memoria, notizie e flashback, asciutto e misurato ma anche commovente) come il ritornello di una vecchia canzone.
Le vediamo, quelle scarpe, le «sentiamo», quasi, come la voce di una donna che ci racconta la sua storia prima di essere risucchiata nel buio di un treno, di un lager, di un incubo.
Sì, le scarpe di Klara parlano. Raccontano, quelle scarpe.