Che brutta Italia. Ci resta la mamma
Che brutta Italia. Ci resta la mamma
Gli adulti sono cattivi. L’ingiustizia trionfa. Ci salveranno i bambini? Con un titolo che attira, «Tu splendi», Giuseppe Catozzella (classe 1976) ci propone un’altra storia piccola ma con implicazioni grandi, vista con gli occhi di un bambino di quasi 12 anni, Pietro, e raccontata, quasi, con la sua lingua di ragazzino.
Catozzella ci riprova, a entrare nella testa di un essere umano molto giovane molto intelligente e molto idealista, dopo il grande meritato successo di «Dimmi che non hai paura» (2014) dove la prima persona narrante era l’atleta somala Saamiya Yusuf Omar, quella che commosse il mondo arrivando staccatissima nella sua batteria dei 200 metri alle Olimpiadi di Pechino del 2008 e quattro anni dopo perse la vita su un barcone diretto verso le nostre coste sovrane. Sperava di andare alle Olimpiadi di Londra, quell’anno, ma il Mediterraneo ha ucciso anche lei.
Vicenda bellissima e dolorosa, che sta per diventare un «film internazionale», avverte il risvolto Feltrinelli di «Tu splendi». Titolo bello e furbo, perché ricorda «Fai bei sogni», azzeccatissimo bestseller autobiografico di Gramellini sulla storia tristissima della sua mamma e di sé bambino. E anche qui, con Catozzella, con Pietro ovvero Pi, c’è una mamma che se ne va troppo presto, a sistemare le cose là dove un giorno arriveranno anche i suoi bambini. E Pietro parla con lei, quando la vita diventa dura, e lei - da quel posto misterioso dove si è nascosta - lo aiuta, eccome, a tener duro.
Raccontare storie dalla parte dei ragazzini assicura un’immediata empatia del lettore: dai dickensiani Oliver Twist e Pip («Grandi speranze») fino a questo Pi, chi non solidarizza con l’orfanello simpatico e coraggioso?
Catozzella ha trovato questo modo per raccontare la cattiveria dell’Italia di un passato prossimo che assomiglia molto al nostro presente, con i pregiudizi anti-stranieri, la violenza impunita, la rassegnazione dei vinti, il cinismo del potere.
È come se solo il punto di vista dei ragazzini fosse l’unica chiave pura ma anche lucida per raccontare le ignavie e le perfidie degli adulti. Forse la crisi della solidarietà e il trionfo dei populismi si spiegano anche così: gli adulti usano parole usurate, gli scrittori non riescono a inventarne di nuove per raccontare un Paese che ha paura, e allora ricorrono alla finzione di una lingua di ragazzini che in realtà ragionano come gli adulti «puliti» che si sono dileguati, che non si trovano più. È anche una storia del sud, che ricorda da vicino il realismo magico di un Carmine Abate e «Io non ho paura» di Ammaniti, questo «Tu splendi».
E l’atmosfera meridionale, assolata derelitta e mitica, è ben ricostruita attorno al Pietro protagonista e ai suoi amici ragazzini, costretti a scoprire in una sola estate quanto è brutto il mondo e quanto rimane bella la vita. Nonostante tutto: «Per la prima volta mi sentivo vivo, tutto era come una grazia». Romanzo un po’ buonista e un po’ pessimista - con passaggi splendenti (soprattutto il rapporto del protagonista con la sorella Nina e i «Nononni») e altri più prevedibili e politicamente corretti, anche «Tu splendi» - come «Io non ho paura», come «Dimmi che non hai paura» - sembra una sceneggiatura di film già fatta e finita. E questo è un pregio ma anche un difetto, perché quando duecentotrenta pagine scivolano via leggere e veloci, agili e piacevoli, in poche ore di lettura, forse vuol dire che la letteratura ha perso l’occasione di inquietarci, di metterci un po’ in crisi. Invece ci rassicura con le parole, affettuose e splendenti, di una mamma che non c’è più e invece c’è sempre dentro il cuore di un ragazzino. Che brilla nella notte italiana.