La nuova ossessione si chiama sicurezza
La nuova ossessione si chiama sicurezza
L’ossessione sicurezza. Mondo, Italia, condominio. In una esistenza già iper-tecnologica, iper-garantita, iper-assicurata, ci opprime la necessità psicofisica di sentirci e dirci sicuri. Michele Nardelli e Mauro Cereghini, che di Balcani e di promozione della cultura di pace sanno parecchio, partono dalle false sicurezze della Bosnia 1992 per iniziare il loro viaggio in questa parola che oggi è una delle più abusate sul mercato della politica. Il libro, «Sicurezza», collana «Parole allo specchio», edizioni Messaggero Padova, sarà presentato a Trento venerdì 13 luglio, alla libreria Due Punti, alle 18.
«Qui non accadrà» dicevano a Sarajevo 26 anni fa, mentre apprestavano le trincee. E gli autori commentano: «Vediamo solo quel che vogliamo vedere. È così anche per l’insicurezza e la paura. Si è diffuso in modo quasi virale, sotto pelle, un sentimento di precarietà esistenziale, come vivessimo una costante minaccia personale e di gruppo. I dati indicano il progressivo calo dei reati in Italia, ma non lo si vede e si continua a chiedere più sicurezza».
Con un esergo affidato alla Ginestra di Leopardi, sulle «magnifiche sorti e progressive» che non arrivano mentre si resta invischiati nel «secol superbo e sciocco», Cereghini e Nardelli citano l’enciclica «Laudato si’» di papa Francesco e la sua bella immagine della «terza guerra mondiale a pezzetti», evocano Bauman (la «paura liquida») e Hillman, Balducci e Morin.
Contestano lo sfondo falso dello «scontro di civiltà» e ritornano al Novecento, secolo breve sì, secolo dei diritti e del progresso ma anche secolo degli assassini e della violenza organizzata, che culmina nei lager come picco tragico e finisce l’11 settembre 2001 con l’attacco alle Torri Gemelle, simbolo dell’insicurezza globalizzata.
Con un bel verso di un poeta friulano da poco scomparso, Pierluigi Cappello, Cereghini e Nardelli traghettano il loro discorso dagli Stati alle città: «Già s’insinua fra le case,/ trova l’estuario nelle vie sfollate,/ con lento incedere di lava, il buio». La città che è bazar ma pure giungla. Quartieri, incroci, palazzi videosorvegliati, zone blindate e «sicure» che si contrappongono a banlieue e favelas abbandonate a se stesse, celebrazione di una miseria insormontabile e di un’ingiustizia insopportabile.
Davvero, il buio avanza e le inferriate non lo tengono fuori, perché i diversi sono fra noi e mettono in crisi le tranquillità identitarie consolidate. Rancore sotto la cenere, paura come vuoto di pensiero: l’insicurezza internazionale si trasferisce nella testa, a livello personale.
E gli autori non possono che ribadire: «Apertura, incontro e conoscenza reciproca sono l’antidoto alla paura. Entrare nella storia, nelle culture, negli usi, negli idiomi degli altri è la condizione per riconoscerli e sapervi interloquire». Parole che oggi la vulgata dominante bollerà come «buonismo» da snob che non sanno interpretare gli umori del popolo.
Il quarto e ultimo capitolo, allora, propone il «prendersi cura» come risposta alla domanda di protezione: che non è solo difesa dalla microcriminalità (che non va sottovalutata) ma esigenza di servizi, di tutela delle famiglie, di decoro urbano e dignità sociale.
Bella l’idea finale, della sicurezza come «con-fusione». Non nel senso di caos ma nel significato di intreccio, compenetrazione, inclusione, accoglienza reciproca: io riconosco te, noi incontriamo voi e insieme abitiamo una casa comune, una città condivisa, dove le differenze non sono divaricazioni insanabili ma possibilità di conoscenza.
Nardelli e Cereghini - dopo tante parole di sociologi, politologi e filosofi - finiscono il loro breve viaggio nella «Sicurezza» riapprodando alla «Prospettiva Nevskij» di Battiato: «il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire». Ecco, spingere la notte più in là, intravvedere in anticipo i segni dell’aurora. E scegliersi, anziché cattivi agitatori di paura, buoni maestri, che ci insegnino a distinguere, a decifrare, a non maledire i tempi bui.