Quello che Toninelli non dice sull'A22
Quello che Toninelli non dice sull'A22
L’ineffabile ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Danilo Toninelli, non perde occasione per mettere sotto accusa e delegittimare agli occhi dell’opinione pubblica le concessionarie autostradali. Ora, se nel caso della vicenda del ponte Morandi di Genova sarebbe oggettivamente difficile dargli torto, diverso è il caso dell’Autobrennero.
Negli ultimi tempi, gli attacchi alla società di via Berlino e ai suoi azionisti, sempre descritti come avide sanguisughe a caccia di denaro pubblico a scapito dei cittadini contribuenti, si sono moltiplicati. E il ritornello su chi «in questi anni di proroga ha continuato a godere di ricchi profitti» e sugli «enormi dividendi di una concessione che non vorrebbero finisse mai», così come sul «ritorno a una gestione pubblica», è tornato puntuale anche ieri, nell’altrettanto puntuale nota del ministro, che minacciosamente annuncia ispezioni e volontà di «vederci chiaro» dopo il caos sull’A22 innescato dai Tir (senza catene) bloccati nella neve.
Lungi dal voler vestire i panni dell’avvocato difensore di Autobrennero (en passant, non è la prima volta che d’inverno i Tir intrappolati dalla neve bloccano l’autostrada al Brennero, e non sarà l’ultima), mi pare opportuno ricordare giusto un paio di questioni.
La prima è che la gestione di A22 non ha bisogno di tornare pubblica, perché è già, ed è sempre stata, pubblica. È vero che ci sono stati e ci sono ancora degli azionisti privati, ma la maggioranza del capitale è saldamente in mano a enti pubblici: per la precisione, più dell’84%. Forse al ministro - meglio sarebbe dire al ministero, perché a volte ho il sospetto che le frequenti dichiarazioni di Toninelli siano in qualche modo imbeccate da quei potentissimi mandarini dell’apparato del Mit che negli ultimi 20 anni tutto hanno fatto tranne che dimostrare di avere a cuore le sorti di Autobrennero -, forse al ministro-ministero, dicevo, piacerebbe una gestione «più» pubblica, magari con l’Anas in prima fila a raccogliere i famosi dividendi, togliendo di mezzo gli enti territoriali, che pure pagano il prezzo più alto in termini di consumo del territorio e di inquinamento.
La seconda questione che mi preme ricordare è questa. Toninelli, come detto, ricorda spesso la gestione in proroga dell’A22, a concessione scaduta; ricorda i profitti e i dividendi, ma non ricorda mai quello che è stato, o avrebbe potuto essere, un modello all’avanguardia nella gestione delle politiche infrastrutturali di un paese moderno e votato allo sviluppo e alla crescita, il cosiddetto «modello Brennero». Negli anni Novanta, lo ricordiamo, con le due finanziarie del 1997 e del 1998, messe a punto dal governo Prodi allora in carica, venne ideata una architettura concessionaria che poggiava su due pilastri: da un lato, una proroga trentennale della concessione stessa senza gara; dall’altro, come contropartita e a favore della collettività, l’accantonamento in esenzione di imposta della stragrande maggioranza degli utili, che, invece di essere distribuiti agli azionisti, sono stati fatti confluire in un fondo destinato a finanziare la parte italiana del tunnel di base del Brennero e che ad oggi costituiscono forse le uniche risorse certe per quell’opera.
Ciò significa che gli azionisti di A22 si sono impegnati a rinunciare ai tanto citati dividendi per finanziare un’opera concorrente, la quale, spostando le merci su gomma, toglierà ricchi profitti (ma anche inquinamento) all’arteria autostradale. Non stiamo parlando di noccioline: l’ultimo bilancio disponibile, quello del 2017, fissa a 653,5 milioni di euro la dotazione del fondo.
Tutto questo il ministro Toninelli lo dimentica sempre, forse perché, come ebbe a dire, è convinto che il tunnel del Brennero sia già in funzione.
Il punto è che da anni il «tesoretto» custodito in A22 fa gola a Roma, che le ha provate un po’ tutte per acquisirne il controllo, e ancora ci sta provando evidentemente. Forse proprio a quello mira la «rivoluzione» ricordata dal ministro Toninelli nella sua nota di ieri. Perché ogni «rivoluzione» che si rispetti ha il suo palazzo da saccheggiare.