L'orrore della Shoah: Arnaldo Loner, guardiano della memoria
C’è una memoria «di sangue, di fuoco, di martirio». Così la definiva Salvatore Quasimodo nell’epigrafe che scrisse per l’eccidio nazifascista di Monte Sole, la strage di Marzabotto, di cui ricorreva, in questi giorni, il 75° mesto anniversario.
Una memoria che fino ad oggi, faticosamente e con ostinata determinazione, ci ha permesso di non dimenticare l’orrore della Shoah.
Ma è una memoria che, inevitabilmente, tende a indebolirsi: i suoi contorni diventano via via più sfocati, più indeterminati. Sfumano nell’indefinito, dove ogni cosa sembra perdere l’ancoraggio con la realtà storica e, di conseguenza, rischia di perdere credibilità.
Arnaldo Loner è un guardiano di quella memoria. Avvocato bolzanino con una brillante carriera alle spalle, lontane radici trentine (cembrane), bibliofilo raffinatissimo e membro dell’esclusivo Aldus Club di Umberto Eco, a discapito dei suoi 86 anni si è consacrato, entusiasta e indefesso, a quella che considera una vera e propria missione: la missione della memoria, appunto.
Quando, alla fine del secolo scorso, venne istruito il processo a carico di Michael “Mischa” Seifert, SS di origine ucraina, il carnefice del lager di Bolzano, fu all’avvocato Loner che l’allora sindaco della città, Giovanni Salghetti, affidò l’incarico di rappresentarla come parte civile.
Fu, quello, un momento di svolta, l’occasione per mettersi in gioco sul campo, dopo tanti studi.
Come lui stesso racconta, nel suo appartamento di Gries, a Bolzano, letteralmente invaso dai libri: «Ho cominciato a interessarmi dell’Olocausto già da studente, all’Università. Ma la spinta è stata quando il sindaco Salghetti mi ha dato l’incarico di rappresentare il Comune e la città di Bolzano nel processo contro Michael Seifert, una belva umana che ha ucciso moltissime persone e che non ha mai pronunciato una sola parola di pentimento. Mai».
Quel processo fu, a ben vedere, proprio la rivincita della memoria: per decenni il boia Seifert era vissuto nell’oblio, rifacendosi una vita in Canada. Per decenni i fascicoli che lo riguardavano, e come lui tanti altri criminali nazisti, erano rimasti tragicamente chiusi, ignorati. Dimenticati.
A trascinarlo fuori da quel cono d’ombra, ad accendere i riflettori sui suoi misfatti e le sue nefandezze, benché a distanza di così tanti anni, non è stata sete di vendetta; forse non è stata, non solo, almeno, una pur legittima sete di giustizia.
È stata la necessità di preservare la memoria, di combattere l’oblio. Dimostrare i suoi efferati omicidi («Siamo riusciti a provare che ammazzò undici persone, in realtà furono molte di più», osserva Loner) e le sue violenze disumane era prima di tutto un imperativo morale nei confronti delle vittime. Di quelle accertate e a maggior ragione di quelle cadute, loro sì per sempre, nell’oblio.
«Da quel processo - ricorda Loner - ho capito che bisognava fare un’opera di divulgazione, a partite dai giovani, e dunque dalle scuole. Le scuole sono fondamentali, perché noi abbiamo avuto finora una memoria vissuta, avevamo le vittime. Alcuni mesi fa, a 99 anni, è morta Maria Teresa Scala, che venne a Verona al processo: raccontò di come aveva visto Seifert uccidere un ragazzo ficcandogli le dita negli occhi. Questa memoria, adesso, è sostanzialmente finita. Ci resta una memoria trasmessa, quella che noi possiamo passare ai ragazzi. È una necessità vitale. Io vado nelle scuole italiane e tedesche, giro molto perché sono convinto che questo messaggio sia fondamentale. Non voglio essere presuntuoso, ma quando esco da una scuola, ecco, io non credo che qualcuno di quei ragazzi andrà a iscriversi a CasaPound».
Difendere e trasmettere la memoria, combattere il virus del negazionismo, combattere gli «assassini della memoria» è nel contempo «un dovere morale e una forma di difesa contro il risorgere di pericolosi fantasmi del passato».
Un dovere la cui impellenza risulta tanto più evidente se consideriamo che «i primi veri negazionisti - ci mette in guardia Loner - furono proprio i nazisti». E cita, a questo proposito, le parole di Primo Levi, che, nella prefazione a «I sommersi e i salvati», ricordando come le SS fossero solite canzonare i prigionieri,così scrisse: «In qualunque modo questa guerra finisca (dicevano i guardiani, ndr), la guerra contro di voi l’abbiamo vinta noi; nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza, ma se anche qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà. (…) E quando anche qualche prova dovesse rimanere, e qualcuno di voi sopravvivere, la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti».
Forse c’era del vero, in quelle parole terribili.
Loner, a questo proposito, ci riporta uno degli innumerevoli episodi che puntellano la sua personale «memoria» dell’Olocausto: «Jacques Stroumsa era un ebreo di Salonicco. Fu deportato ad Auschwitz con la famiglia: sceso dal treno e portato alla baracca, si ritrovò a dire ai suoi compagni che tutto sommato i tedeschi non erano così terribili, perché se gli uomini erano stati costretti ad andare a piedi, donne anziani, e tra essi la moglie e i suoceri, erano stati trasportati con un camion. Furono proprio i compagni della baracca a rivelargli la verità, e cioè che donne e anziani erano stati portati alle camere a gas. Jacques è sopravvissuto e quando è venuto a trovarmi a Bolzano, e ha visto tutti i miei libri sull’Olocausto, mi ha detto: ricordati una cosa, chi non è entrato, non potrà mai entrare, e chi è entrato, non potrà mai uscire. Moltissimi, d’altra parte, lo hanno scritto: la Shoa si può conoscere, ma non comprendere». Ma, e ci rifacciamo, ancora una volta, alle parole di Primo Levi, «se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre».
Difficile trovare parole più chiare e pertinenti per spiegare quello che fa, oggi, Arnaldo Loner.
«Mi interrogo sempre quando vedo questi ragazzotti sfilare con le teste rasate e il braccio teso. È ignoranza o convinzione? Io penso che in buona parte sia ignoranza. Anche del fascismo, in Italia, si è data troppo spesso una lettura quasi bonaria. Ma Mussolini, nel ’38, ha fatto le leggi razziali, e dopo il ’43 i fascisti hanno consegnato ai tedeschi gli ebrei italiani, che avevano coscienziosamente schedato. Questi ragazzi lo sanno? Ecco perché penso che il ruolo della scuola sia, anche su questo fronte, fondamentale. Una volta, in un liceo a Verona, uno studente mi ha chiesto: ma lei come fa a leggere e studiare queste cose così terribili? Sa che cosa ho risposto? Ho detto: lo faccio per raccontarle a te!».