Questi 25 anni senza Alex Langer
Questi 25 annisenza Alex Langer
È un’assenza che pesa, quella di Alex Langer. Manca il profeta anomalo, in un certo senso fuori dal tempo: perché era troppo avanti quando sollevava certi temi; perché era troppo lontano quando quel frammento di terra chiamato Alto Adige cercava di lavorare sulle grandi questioni di una convivenza che in fondo non è ancora del tutto compiuta.
Oggi, a 25 anni dalla morte di Langer, tutti tendono a chiedersi cosa direbbe e cosa farebbe Alex, un uomo, un politico, un autentico e intransigente ambientalista, un pacifista, un intellettuale che è pieno di eredi, cosa di cui forse sorriderebbe molto, considerato che è sempre stato un solitario. Anomalo persino nel suo essere leader. Anomalo, controverso e struggente anche nella sua tragica uscita di scena.
Nel suo carattere, nel suo darsi interamente al suo impegno, ai suoi ideali, restano i segni di una politica nobile - fatta di valori e di continua testimonianza - che forse non c’è più. Se fosse vivo, probabilmente non avrebbe un ruolo o un incarico. Troppo stretti, per lui, gli abiti e i modi dei politici di oggi. Forse avrebbe un ruolo internazionale altro e lontano: un incarico nel mondo della solidarietà internazionale. Ma, per quanto possa sembrare paradossale, la sua voce è quasi più forte nell’assenza, le sue parole sono fuoco vivo proprio perché lui, 25 anni fa, ha deciso di spegnerlo, quel fuoco: il suo addio alla vita, alla politica, a una storia che è rimasta incompiuta, l’hanno reso immortale e ancor più enigmatico. Marco Boato, a lungo suo compagno di viaggio, ha scritto sul nostro giornale nei giorni scorsi che le parole che Langer dedicò a Petra Kelly si possono considerare autobiografiche. Rileggiamo quel passaggio dedicato alla morte tragica della leader dei verdi tedeschi. Perché è una sorta di testamento morale. Un messaggio da un mondo che non c’è più o che non c’è ancora. Parole che arrivano da una nicchia culturale e intellettuale ancor prima che politica, nicchia a Langer cara da sempre, perché era cocciutamente innamorato delle minoranze, delle cause perse, delle battaglie impossibili, dei più deboli, dei vinti: «Forse è troppo arduo essere individualmente portatori di speranza: troppe le attese che ci si sente addosso, troppe le inadempienze e le delusioni che inevitabilmente si accumulano, troppe le invidie e le gelosie di cui si diventa oggetto, troppo grande il carico di amore per l’umanità e di amori umani che si intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza da ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere».
Un autoritratto: parole che fanno impressione per la loro attualità. Ma i proclami (e i profeti) mancano, come i sogni. Anche quando restano spezzati. E non sbiadiscono. Nemmeno 25 anni dopo.