Tra franco-fonia e anglo-mania
Tra franco-fonia e anglo-mania
In una provocatoria lettera all’Adige del 12 luglio dal titolo: «Basta inglese, in Europa si torni al francese», il signor Renato Lochner riprende la questione della diffusa e inarrestabile anglo-mania. Mi ha fatto tornare alla mente un’altra lettera, del 9 settembre 2016, di una lettrice che affrontava lo stesso argomento.
La lettera in questione veniva riportata nella rubrica «Sentieri» con il titolo: «La moda dell’inglesismo: italiano urgente cercasi» accompagnata dal puntuale commento di Franco de Battaglia. In proposito, ero intervenuto anch’io sul nostro giornale con un articolo dal titolo: «Anglomania all’italiana» di cui ripropongo alcuni passaggi chiave. Nessuno, ovviamente, disconosce le esigenze pratiche legate alla nostra società globalizzata la quale necessita di una lingua franca, snazionalizzata. In presenza del fallimento del progetto «Esperanto» di alcuni anni fa o della (presunta) improponibilità del latino (?), l’inglese impiegato come lingua veicolare ha avuto successo. Tuttavia, senza essere esperti di sociolinguistica, tutti sanno che esiste un legame diretto fra lingua e potere. Nel corso del Novecento l’Impero Britannico dapprima e, successivamente, quello statunitense hanno svolto un ruolo sempre più egemone nella politica internazionale ma, soprattutto, nell’economia, nella finanza, nella ricerca scientifica e tecnologica. Stessa cosa era accaduta, peraltro, con il latino veicolato dall’Impero Romano come lingua dell’amministrazione e con il greco antico quale lingua della scienza, ossia della filosofia e della letteratura del tempo. Né possiamo dimenticare che il poeta latino Orazio scriveva: «La Grecia conquistata (dai Romani) conquistò il selvaggio vincitore» (Epistole). Altra cosa è un uso spregiudicato di espressioni inglesi che, soprattutto in Italia, spopolano a tutti i livelli: dalle denominazioni dei negozi all’uso bulimico di intercalari, a espressioni codificate nei documenti ufficiali delle pubbliche amministrazioni (lockdown, tanto per restare aggiornati). Non se ne può più, non ci sono più limiti. Una cosa è lo sciovinismo o nazionalismo linguistico chiuso nella sua ermetica impenetrabilità, di cui la Francia è maestra, altra cosa sono forme di ostentazione e uso senza freni dell’inglese che, in Europa, si riscontra soprattutto in Italia. Senza tanti giri di parole si tratta di una manifestazione di provincialismo all’italiana, una sorta di complesso di inferiorità mal celato: altro che apertura culturale internazionale!
Non si tratta, ovviamente, di demonizzare la nobile lingua inglese quanto di mettere in discussione l’abuso che si fa, nel nostro Paese, di espressioni e modi di dire che, spesso, non sono giustificati dall’assenza di un corrispondente vocabolo nella lingua di Dante. Lungi da me l’idea di essere un nostalgico del tempo passato. Ogni epoca si caratterizza per il proprio «spirito-del-tempo». La lingua è un fattore dinamico che non può essere cristallizzato. Ciò che stride, nell’attuale situazione italiana, è il confronto con gli altri Paesi dell’Europa occidentale dove la situazione è diversa. Indubbiamente in Francia lo sciovinismo linguistico la fa da padrone e, su tale base, vengono spesso negate le lingue delle minoranze linguistiche storiche. Tuttavia in Francia l’uso del francese è considerato, fin dai tempi della Rivoluzione, un principio di democrazia, invocato allo scopo di garantire l’accesso alla comprensione e alla comunicazione da parte di tutti i cittadini sulla base dei principi di libertà, eguaglianza, fraternità. Se entriamo nei dettagli d’uso, osserviamo che la parola «computer» è sostituita dalla parola «ordinateur», «password» da «mot-de-passe». La NATO diventa OTAN, l’AIDS diventa SIDA, i treni «inter-city» sono denominati «inter-cités» e così via.
I nostri giovani, il cui lessico si riduce di anno in anno, presto comunicheranno con soli segni grafici o poche parole svuotate di senso. Nel corso della storia l’Italia ha subito tante dominazioni ma, forse, nessuna di queste ha inciso in maniera tanto profonda e alienante come questa. La comunità scientifica ha trovato un registro comunicativo efficace come non accadeva dalla fine del Settecento dopo l’abbandono del latino. Ma in tempi di pensiero unico come il nostro, il possesso di «un linguaggio - più che di una lingua - ad una dimensione» può essere esiziale per la nostra civiltà. La lingua, infatti, ha le radici nel nostro esser-ci, direbbe Heidegger. O, per il filosofo Merleau-Ponty, è un tutt’uno con la nostra carne, con la nostra dimensione mentale-corporea. La lingua non si può ricondurre ad un coacervo di segni convenzionali privi di legami profondi con il «mondo-della-vita». Per questi motivi le minoranze linguistiche devono essere difese e tutelate. Non è pensabile che in Trentino si anteponga l’inglese al tedesco o si giustifichi la toponomastica del Tolomei del vicino Sudtirolo. La lingua, è vero, si trasforma incessantemente con l’apporto di nuovi elementi per cui non ha alcun fondamento appellarsi ad un presunto purismo conservativo. Tuttavia, vi sono limiti oltre i quali non si può più parlare di arricchimento bensì, piuttosto, di banalizzazione.
Tornando alla lettera del signor Lochner, circa la preferibilità del francese rispetto all’inglese nell’Unione europea, non posso che trovarmi d’accordo. Forse sarò un po’ di parte in quanto, essendo nato e cresciuto nel nord-ovest, fra Piemonte e Ponente ligure, ho sempre sentito il francese come una seconda lingua materna. Fino all’affermazione prorompente dell’inglese a partire dagli anni Settanta, nella maggior parte delle scuole di quell’area geografica non esisteva neppure l’opzione fra le due lingue. Lo studio del francese non era in discussione, era del tutto scontato. Nelle famiglie dell’aristocrazia torinese il francese era lingua d’uso corrente. Anche la gente semplice lo sapeva parlare. Con i miei genitori spesso si intercalavano le due lingue con un certo compiacimento.
Attenzione però, non confondiamo la franco-fonìa con la franco-filìa. Non si tratta di un gioco di parole. Il signor Lochner fa riferimento alla Francia e al suo sistema di valori umani e sociali. La difesa della franco-fonia riguarda la lingua, come ben sanno gli Svizzeri e i Valdostani, più che la Francia. Il modello linguistico della Francia, che non riconosce ufficialmente le lingue minoritarie, ha infatti cancellato l’italiano in Corsica nel 1859 e a Nizza nel 1860. Tuttavia il francese, ancora oggi, è lingua ufficiale della diplomazia e la prima e più importante lingua dell’Unione Europea. Teniamolo presente, senza subire comportamenti improntati ad una sudditanza ingenua.