Sloi: il famoso sciopero del Natale del 1964 e l’incontro a Predazzo con Aldo Moro
Era il dicembre del 1964 e anche se il famoso boom economico accennava a finire c’era in tutti una sensazione di benessere. Aumentava la diffusione dei giornali, dei televisori, delle automobili e il telefono squillava quasi in ogni casa. Le vie del Giro al Sass erano affollatissime, le vetrine illuminate a festa perché la Lira era forte, c’era lavoro, si potevano programmare le ferie in paesi lontani e nei bar dominavano il Cinar e il Campari spinti dalla pubblicità di Carosello, che mostrava le meraviglie del consumismo.
E’ sabato, di pomeriggio, le automobili ingombrano Piazza Pasi, via Oss Mazzurana, piazza Duomo; i pedoni sciamano nel centro città e molti hanno in mano pacchetti colorati chiusi con nastri sottili e arricciati. E’ la trovata semplice, simpatica, di Franco Valentini figlio del titolare del bel negozio di macchine fotografiche e di carta da pacchi che si apriva in via Mazzini.
S’ode, improvviso, il trillar di un fischietto poi dieci, venti fischi quindi una assordante cacofonia. Si sentono scandire slogan e poi all’improvviso il canto di “Bandiera Rossa”. Ma diamine, “Bandiera Rossa”, cantata così in pubblico, nelle strade del centro di Trento, città compattamente democristiana e nei giorni che sono la vigilia di Natale. Ma dove andremo a finire? Le auto si fermano, la gente si addossa ai muri delle case mentre avanza un corteo di operai. Camminano a passo svelto portando cartelli con la scritta “La Sloi uccide”, “Nella benzina che Voi usate c’ è un po’ della nostra salute” con quel “Voi” scritto proprio con la “V” maiuscola perché in quell’anno ormai lontano anche dalla memoria, i cortei erano rarissimi e verrebbe voglia di dire, educati. Certo, tre anni prima erano scesi in piazza gli operai della Michelin – soprattutto i maschi, non ricordo scioperare le donne che nello stabilimento di via Sanseverino erano tante – della Italcementi di Piedicastello, della Prada, della Carbochimica e qualcuno della Sloi, guidati dal sindacalista Giuseppe Mattei. Ma avevano sfilato di mattina, sul presto e non nelle vie del centro, ma in quelle della periferia.
Gli operai soffiano senza posa nei fischietti di plastica, qualcuno grida “alla Sloi si muore” e dietro al corteo ci sono i poliziotti della “squadra politica” della questura, in borghese, col cappotto grigio, il cappello di feltro con il nastro nero e l’ombrello, nero anche quello e bene arrotolato da sembrare un lungo manganello.
Il giornale “Alto Adige” che aveva la redazione di Trento affacciata su Piazza Pasi aveva affrontato con decisone quella protesta che era una notizia di eccezionale interesse perché per la prima volta, un gruppo di operai era sceso in piazza non per chiedere aumenti di stipendio e riduzione delle ore di lavoro, ma invocando il diritto alla salute. Il titolo – la data è 12 dicembre 1964 – è “La fabbrica ci avvelena” e anche quel titolo era una novità nel panorama giornalistico che tendeva a parteggiare per i padroni detentori dei quattrini della pubblicità. Ma ecco alcuni passaggi di quell’articolo: “Per almeno trenta operi della Sloi, la strenna di Natale si chiama licenziamento ed è contro i licenziamenti e le difficili condizioni di lavoro che gli operai hanno proclamato lo sciopero. La direzione dello stabilimento ha deciso di ridurre l’organico licenziando; lavoratori e sindacati si sono opposti e nel secondo giorno di sciopero sono scesi in piazza”.
Il cronista aveva raccolto alcune testimonianze quando il corteo si era fermato sotto le finestre del quotidiano. “La fabbrica uccide, la fabbrica ci rende pazzi. Ho 45 anni, tre figli e nella Sloi mi sono ammalato, ho la salute rovinata e ora mi è arrivata la lettera di licenziamento perché si sono resi conto che non sono più in grado di lavorare come prima, insomma a produrre come quando stato bene. E’ inverno e mi dite dove trovo un lavoro?” Poi il giornale aveva scritto: “E’ un altro momento altamente drammatico nella storia della Sloi. La gente si ricorda che qualche mese fa” – era successo in agosto – “un operaio aveva afferrato un rasoio di quelli che in quell’epoca venivano maneggiati dai barbieri, si era fatto cento tagli ed era stato ricoverato in fin di vita al Santa Chiara. E si ricorda anche che negli uffici di Piazza Dante” all’epoca davvero aperti, anzi spalancati al pubblico, cioè agli elettori, “l’assessore regionale Bruno Fronza aveva ricevuto una folta delegazione di operai. Gli avevano raccontato che la Sloi era il complesso più malsano della Nazione, che in molti erano intossicati dal piombo, che erano in ballo trenta o quaranta licenziamenti e che, mentre era in corso l’incontro in Regione erano arrivate le prime lettere di licenziamento mostrate ai cronisti dai sindacalisti della Cgil, della Cisl e della Uil”. Fronza che era un galantuomo, era rimasto esterrefatto, aveva afferrato il telefono, chiamato la Sloi ma gli era stato detto che negli uffici non c’era nessuno.
Lo sciopero continuava, il cancello di via Maccani era presidiato giorno e notte degli operai e dalle loro donne. Avevano rizzato una tenda fatta con un po’ di teli cuciti fra di loro e sulla quale era stato issata una bandiera rossa. Quella tenda era diventata il simbolo di una strenua lotta che, giorno dopo giorno, aveva coinvolto un numero crescente di cittadini: lavoratori di altre fabbriche, ma anche impiegati, professionisti, giornalisti, sacerdoti e personaggi della cultura come il libraio Ulisse Marzatico e lo psicologo Corrado Pizzedaz. La città non voleva restare estranea ad una vicenda che, finalmente lo si era capito, era drammatica per gli operai, ma pericolosa per tutti gli abitanti di Trento che ricordavano quel tratto di Adigetto colorato di verde, oleoso e puzzolente che scorreva in Piazza Dante, dove oggi c’ è il laghetto delle paperelle.
C’era stata un’ altra marcia per le vie del centro e il socialista Nereo Manica con il comunista Sergio de Carneri, avevano presentato un’interrogazione – all’epoca erano poche, ma ben mirate e molto documentate – che svelava “la tragedia degli operai ricoverati d’urgenza nell’ospedale psichiatrico di Pergine” e la Sloi aveva riposto con un “non è vero che gli operai siano stati licenziati durante la mediazione. La stessa infatti era già conclusa da un paio di giorni, quando sono partite le lettere di licenziamento. Non è vero che è stato previsto un incontro tra sindacati e la direzione; nessun incontro potrà esservi nella situazione attuale” e in questa frase c’ è tutta la realtà della Sloi e poiché i giornali cittadini avevano scritto che era “saltato” uno dei reattori, il comunica dell’azienda precisava: “La notizia dello scoppio di un reattore è frutto di fantasia. Realmente c’ è stato uno sfiato del tutto regolare, di valvole si sicurezza”. Insomma era “regolare” che l’atmosfera della città venisse contaminata dagli sfiati del reattori, le acque della roggia degli Armanelli imbrattate di liquami avvelenati e che il terreno venisse intriso dai veleni delle scorie derivate dalla pulizia dei reattori messe ad essiccare su un piattaforma di cemento o più semplicemente rovesciate nel piazzale.
Era il 24 dicembre, la notte di Natale. Gli operai si erano assiepati attorno al fuoco acceso sul piazzale antistante il cancello di ingresso alla fabbrica, e avevano portato la moglie, i figli, gli amici. Era arrivato anche un cronista dell’ “Alto Adige”. Attorno a quel falò non c’era voglia di fare festa perché non c’era futuro, non c’erano più soldi e si capiva che la solidarietà, certamente nobile, spontanea, ricca, sarebbe stata di breve durata. In quella sera il medico della Sloi aveva incontrato sindacalisti e operai o meglio “gli scioperanti” come si scriveva in quell’epoca e un lavoratore aveva detto: “Mia moglie mi vede piangere, tremare, sono stato otto mesi a Padova, ricoverato nella clinica del lavoro e c’era nello stabilimento, uno che è matto. Era stato a Pergine, nell’ospedale psichiatrico, gli hanno tolto anche i diritti civili, ma adesso lavora ugualmente”. Questo si sentiva raccontare in quella lontana notte di Natale.
In Largo Carducci era stata rizzata la tenda della solidarietà e molti cittadini, uscendo dalla Messa di Mezzanotte, avevano appreso proprio davanti a quella tenda dove si accumulavano doni e denaro, che erano stati licenziati 40 operai mentre un uomo di 33 anni che aveva ricevuto la lettera di licenziamento perché intossicato, stava per essere ricoverato nella clinica delle malattie del lavoro di Padova, si era presentato davanti al picchetto tenendo in braccio un bimbo di poche settimane e un coltellaccio. Gridava frasi senza senso, alzava il coltello sopra la testa. Era stato disarmato facilmente e consegnato agli infermieri dell’autolettiga che lo aveva portato in manicomio.
La città era attonita, spaventata, al giornale “Alto Adige” si rivedevano le raccolte delle annate precedenti alla ricerca di articoli – spesso erano solo brevi trafiletti – che raccontavano di nubi di cloro, il vigile urbano che in bicicletta e nelle vie del rione di Cristo Re soffiando nel fischietto gridava di chiudere le finestre, tenere i bambini in casa e aspettare che il vento disperdesse quella nebbiolina che irritava naso, bocca, occhi. Qualcuno raccontava che un grosso topo era finito nell’Adigetto dove era stato visto annaspare furiosamente, perdere il pelo, morire un attimo dopo aver toccato la riva. Era accaduto in Piazza Dante nel tratto scoperto dell’affluente dell’ Adige da dove erano sparite le lavandaie che fino al 1940 lavavano i panni in quello slargo, ora ricoperto, che c’era un centinaio di metri a sud del luogo dove oggi sorge la stazione della funivia per Sardagna. Poi si raccontava che lungo la roggia degli Armanelli non c’erano né farfalle, né lucciole, neppure zanzare. Né si vedevano nidificare gli uccellini e le rondini planare per raccogliere l’acqua. Che, da tempo, nessun contadino della zona captava per irrigare l’orto.
Insomma l’inquinamento delle acque e dell’atmosfera erano noti non solo nel rione di Cristo Re e fra gli avventori del famoso bar Zinzorla così chiamato per quell’ orologio a muro che raffigura un’altalena, ma dal resto dei cittadini che dovevano sopportare le polveri eruttate giorno e notte, estate e inverno, Natale e Pasqua dai due camini dell’ Italcementi di Piedicastello, delle polveri di naftalina della Prada che causavano allergie e crisi asmatiche e da quelle altrettanto micidiali e fortemente imbrattanti di uno stabilimento da tempo insediato a Trento Nord. E perché “L’ Adige” e l’ “Alto Adige”, cominciavano a pubblicare articoli sull’inquinamento della città mentre un medico, il professor Giuseppe Barbareschi, anatomo patologo all’ospedale Santa Chiara stava scoprendo che i polmoni di molti cittadini defunti presentavano chiare tracce dei veleni assorbiti. Poi un sabato pomeriggio, era inverno, la gente che scendeva da Monte Bondone si era fermata poco sopra Sardagna per constatare come era fitta, scura, sporca la nebbia che incombeva su Trento. Era una piccola folla e da quel momento, la gente cominciò a telefonare ai giornali mentre si andava formando uno coscienza ecologica: non si poteva sbandierare la città turistica se l’aria che si respirava era fetida.
Era mercoledì 30 dicembre del 1964, si sapeva che Aldo Moro all’epoca Presidente del Consiglio di ministri, aveva scelto Predazzo per una breve vacanza, “lontano dal trillare dei telefoni” come aveva detto, accennando un sorriso ad un cronista, facendo intendere che più che dal suono dei telefoni voleva liberarsi dal cianciare degli interlocutori. Poi dopo la tragedia di via Fani e l’orrore del “carcere del popolo” e del relativo “processo” si era saputo che aveva scelto Predazzo per poter incontrare, lontano da ogni inciampo, Silvius Magnago per cercare di comporre la questione sud tirolese. “Andiamo a trovarlo” dissero i lavoratori attorno alla teda e si recarono dai sindacalisti Lelio Lodi e Ugo Panza. Faceva molto freddo nella notte del 31 dicembre attorno a quel fuoco che rischiarava un asse sulla quale erano state inchiodate le lettere di licenziamento quando per alzata di mano, si decise di andare da Moro e la sera del primo gennaio il presidente fece sapere che avrebbe accolto gli operai.
Quando i criminali ignoranti delle Brigate Rosse decisero di rapirlo per ucciderlo, non sapevano che Aldo Moro si interessava alle condizioni delle carceri, ai problemi enormi della dignità del lavoro non potendo risolverli in un’ Italia squinternata come lo era allora e, purtroppo, lo è ancora. Il sì del Presidente del Consiglio gettò nel panico la Democrazia Cristiana, il Commissariato del Governo, la Questura, ovviamente la direzione della Sloi. All’alba del 1965 sui giornali era ancora molto difficile parlare di scioperi, di malattie conseguenti le condizioni di salute dei luoghi di lavoro, persino degli infortuni e l’idea dell’incontro fra “gli scioperanti” e il Presidente appariva, a dir poco, temeraria. Ma il sì di Moro era accompagnato dalla data dell’ incontro: il 4 gennaio. Di pomeriggio
Ecco gli operai Mario Zeni e Mario De Rio, vengono ricevuti dal Presidente, fatti sedere in due poltroncine nell’appartamento molto spartano. Pochi minuti: Moro si era informato sui problemi della Sloi e li conosceva. Promette il suo interessamento. Anche il Ministro alla sanità sollecitato dal sottosegretario Orlando Lucchi e dall’onorevole e avvocato Renato Ballardini decide di ricevere una delegazione di lavoratori. Si fa una colletta per pagare il viaggio in treno, ma si è già al ventottesimo giorno di sciopero, i risparmi nelle case degli operai stanno per finire e la Sloi fa sapere che il blocco della produzione sta favorendo le industrie concorrenti. Qualcuno vede in quella nota una minaccia: la proprietà chiederà i danni, che sospettano notevoli, per la mancata produzione?
Correva l’anno 1965, il sindacato non era abbastanza forte per resistere alle molte pressioni e, forse, a qualche minaccia; il governo del Trentino era davvero assente e il giornalismo aveva altre urgenze. Si arriva al trentesimo giorno di sciopero e la direzione della Sloi tona a farsi viva avvertendo che i sindacati non hanno formulato richieste ufficiali “invece sbandierate in piazza, ma non comunicate alla ditta”. Il ministero del lavoro e quello della sanità decidono di nominare due distinte commissioni di inchiesta e subito si capisce che i tempi saranno biblici come del resto succedeva – e forse succede ancora – quando si insediano le citate “commissioni” mentre il fronte operaio rimasto senza soldi e senza speranze si sta rompendo. Anche Aldo Moro non è riuscito a trovare una soluzione e la solidarietà spontanea, vasta che aveva accompagnato gli “scioperanti “ a braccia e borse aperte si era inesorabilmente esaurita.
Sabato 15 gennaio l’ “Alto Adige” scriveva: “E’ ripreso il lavoro anche se i licenziamenti non sono stati revocati. Quaranta operai resteranno a casa, riceveranno un contributo dalla Regione e si cercherà di sistemarli presso altre industrie cittadine. Siamo all’elemosina”, al fallimento di una lotta che è stata lunghissima, la più lunga ed aspra della storia operaia del Trentino. Dopo molto tempo si saprà che quei quaranta licenziati erano intossicati dal piombo tetraetile, quindi inadatti al lavoro, ad ogni lavoro; che lo sciopero era finito per un crescente isolamento e perché il sindacato aveva dovuto chinare la testa di fronte alle famiglie che ormai erano alla fame. Sarà il nuovo medico di fabbrica Aldo Danieli un uomo che saprà imporsi, a scrivere il 14 febbraio del 1970, che “in pieno inverno, la Direzione licenziò 40 operai ritenuti poco produttivi, in buona parte perché malati. Senza venire loro incontro con qualche gratifica o facilitazione”.