Tra le macerie e le facce di bronzo
A fine settembre si vota, ecco l’editoriale del direttore dell’Adige Alberto Faustini
Suppongo che fra le materie prime scarseggi anche il bronzo, in Italia: l'hanno usato tutto in Parlamento. Per far cadere Draghi e anche per applaudirlo con quelle facce. E così - ammesso che si sia mai interrotta - ci ritroviamo in piena campagna elettorale. D'estate. Nel periodo un tempo caratterizzato dai governi balneari: monocolori democristiani che solo la politica italiana poteva inventare ai tempi della Prima Repubblica. Ora abbiamo invece il governo dimezzato, come il visconte di Calvino.
Con una differenza: la bomba aveva sdoppiato il visconte, in una parte cattiva e in una buona. Draghi è invece uno solo, con due parti: un pezzo di lui non può fuggire come vorrebbe, perché deve portare la nave Italia in qualche modo fino all'attracco delle elezioni di fine settembre. L'altra parte, con sforzi facilmente immaginabili, deve sfoggiare ancora per un paio di mesi in Europa e nel mondo il sorriso (ora davvero amarissimo) del tecnico prestato al Paese.
E dovrà farlo con il consueto stile, senza poter dire la parola più amata da Grillo, da Conte e da chi li ha seguiti nelle ultime vicende: quel «vaffa» che probabilmente uscirebbe spontaneo dal cuore del banchiere (cuore poco usato, come nella barzelletta che raccontò pochi giorni prima del tracollo?).Molti gli italiani che faticano a capire.
Che quasi si vergognano per le grottesche capriole della classe politica che dovrebbe rappresentarli. Fra loro, c'è anche il primo degli italiani: quel Sergio Mattarella che ha compiuto 81 anni (auguri!), con la consapevolezza di non poter festeggiare nulla. Il presidente della Repubblica ha cercato in tutti i modi di salvare la legislatura e di tutelare la dignità del Paese. Ma è impossibile anche solo pensare di far ragionare chi ha scelto di mettere i piccoli interessi di partito davanti al covid, alla guerra, alla crisi economica e sociale, alla siccità, ai tempi difficili nei quali stiamo già precipitando, a incendi che rappresentano alla perfezione ciò che stiamo vivendo, piromani inclusi.
Come ha scritto Paolo Pagliaro nel suo ultimo libro («Cinque domande sull'Italia» - il Mulino), «in questi 14 anni il nostro paese è molto cambiato. Dopo la crisi del 2008 ci furono le prime avvisaglie di quel fenomeno che Zygmunt Bauman avrebbe poi chiamato retropia, che significa coltivare le proprie speranze non più guardando al futuro, bensì al passato... L'onda populista trovò altri due bersagli perfetti, la casta e le élite: usati come sinonimi, benché siano concetti opposti, si prestavano a colpire qualsiasi avversario».
Parole che rendono quasi prevedibile questo assurdo finale, con il parlamento che ha tagliato il ramo sul quale era seduto, recidendo anche quel poco di credibilità alla quale - con qualche distinguo - poteva ancora aggrapparsi. Qualcuno, fra i politici che oggi già si tuffano con maestria nel mare delle promesse irrealizzabili, pensava di colpire Draghi. E l'ha fatto. Ma in realtà ha fatto molto di più: s'è suicidato. Ammazzando anche la politica seria e necessaria. E lasciando sul campo solo macerie.