Nuovo ospedale: dopo tanti ritardi non sarebbe male fermarsi un attimo e ragionare sugli scenari futuri
Davvero a Trento vale la pena edificare un nuovo ospedale a soli due chilometri dall’attuale? Un supplemento di riflessione appare utile per una visione davvero proiettata nel futuro, pensando a cosa diranno di noi i nostri nipoti
Era il 14 giugno dello scorso anno quando “l’ Adige” annunciava un altro intoppo sulla via del nuovo ospedale attorno al quale si continua a parlare da oltre vent’ anni. Poi c’era stata la lettera di Roberto Pretti (sabato 29 giugno) con quel “il Not rischia di nascere già vecchio” perché con l’andare del tempo, il progetto poteva apparire superato mentre veniva riproposta una forse ardita, magari temeraria, comunque ricorrente idea di un unico ospedale fra Trento e Rovereto destinato a segnare il futuro del Trentino mentre la pubblica opinione, quella capace di un costruttivo dibattito, si focalizzava sulla scelta del luogo.
Adesso è il sindaco Franco Ianeselli a ripetere come di fronte ad un’ opera importantissima che caratterizzerà il corrente secolo sia necessario “prendere tutto il tempo per rifletterci bene sul dove farlo”.
Certo: dove, come pretende il sindaco di Trento. Ma anche quando. Forse non si sono esauriti gli inciampi legittimamente, sul piano giuridico s’intende, proposti dalle imprese che si contendono quel progetto ricco di ardui impegni e di molti quattrini; ma i trentini hanno il diritto di avere al più presto un nuovo ospedale, di imporre un “colpo d’ala” alla nostra Autonomia per una scelta che dovrà essere proiettata con decisione nel futuro. Con un imperativo: ogni proposito dovrà essere oltre che urgente, di avanguardia per quel popolo che affolla e affollerà le corsie dell’attuale nosocomio, sempre più strette fino da diventare soffocanti e sempre più costose per gli inevitabili rattoppi e per il rispetto di quella gente che ogni giorno lì lavora nel tentativo di migliorare la nostra sopravvivenza e, pare ovvio, contemplando ampi spazi per la facoltà di medicina.
Dovrebbe essere sovrana una convinzione: la supremazia della nostra Autonomia su ogni cavillo giuridico e ogni tentennamento politico di fronte ad una urgenza che è la necessità di avere una cittadella ospedaliera adeguata ai tempi, all’eccellenza della nostra sanità e all’epoca che corriamo considerando come il morbo che ci ha messo all’improvviso in ginocchio, serpeggia ancora minaccioso e tutt’ altro che debellato.
Un cenno sui tempi. Era l’estate del 1994 quando nella giunta di Carlo Andreotti, giornalista e avvocato, l’allora assessore alla sanità Pino Morandini, già magistrato del tribunale amministrativo regionale (il Tar) e molto presente nelle corsie del Santa Chiara, cominciò a pensare all’ ospedale del futuro. Che dovrà operare per cinquanta o settant’ anni, tenendo conto gli enormi progressi della medicina, quelli già divenuti realtà e provando, fin dove sarà possibile, a pensare agli anni che verranno e quindi scegliere il sito più adatto. Potrebbe essere fra Rovereto e Trento con quella “t” del “Not” che invece di essere letto come Trento potrebbe diventare Trentino?
Ancora un cenno al passato ormai remoto. Era il 3 ottobre del 1951, e siamo oltre la soglia dei 70 anni, quando si cominciò a pensare ad un nuovo ospedale perché per quello di via Santa Croce ormai si prospettava un’ epoca di sovraffollamento, inefficienza e grave degrado.
Ci volle qualche tempo poi si affidò il progetto all’ architetto Carlo Keller e all’ingegnere Eugenio Taddei e alle 10 del 24 ottobre del 1960 alla presenza dell’ allora Ministro alla Sanità Carlo Giardina, il sindaco di Trento Nilo Piccoli cementò la tradizionale pergamena ficcata nella prima pietra benedetta dall’ arcivescovo Carlo de Ferrari. Sei ettari, ottocento lunghi pali di cemento ficcati come fondamenta, nel terreno acquitrinoso, i lavori affidati all’impresa dell’ingegnere Bruno Bernardi, due miliardi di lire di previsione di spesa che divennero sei per 900 posti letto: l’inaugurazione avvenne domenica 18 gennaio 1970 e già quella zona della Bolghera vocata ad orti e vigneti aveva subito quell’errore urbanistico che, senza zone di parcheggio, aveva visto crescere un quartiere - fra gli altri sbagli la piscina coperta, le strade strette e il non utilizzo della ferrovia - a ridosso del nosocomio.
Disse Keller al momento della posa della prima pietra, ma parve una boutade, quel bisognerà pensare ad un nuovo ospedale che fra cinquant’ anni, appena a nord della Piana Rotaliana, dovrà essere unico fra Trento e Bolzano. L’ idea visse l’attimo di un breve trafiletto nella cronaca di Trento del quotidiano “Alto Adige”. Poi negli anni Ottanta riaffiorò quella proposta in vero mai approfondita di Rovereto e Trento come un’unica città lungo il fiume Adige accompagnata da quella di un unico ospedale a metà strada in una zona di scarso valore agricolo indicata in un dibattito che ebbe come protagonista il professor Claudio Eccher. Luogo facilmente raggiungibile dalla motorizzazione del futuro che sarà - per uomini e merci - ben diversa dall’attuale con una prevalenza, forse, della ferrovia sulla gomma e del trasporto collettivo sull’individuale.
Davvero a Trento vale la pena edificare un nuovo ospedale a soli due chilometri dall’attuale? E per quanto tempo ancora quello di Rovereto, stretto com’è dal cemento, potrà affrontare le future sfide della medicina fra le quali sembra primeggiare quella robotica?
Ci vorrebbe il citato “colpo d’ala della nostra Autonomia”, una visione davvero proiettata nel futuro guidata più dai medici che dai politici, da architetti ed ingegneri già protagonisti nella edificazione di importanti strutture ospedaliere e di imprese in grado di affrontare progetti futuristici. Pensando a cosa potrà accadere fra cinquanta-settanta anni: non sarebbe male dopo tanti ritardi conseguenza di intoppi giudiziari fermarsi ancora un attimo per decidere dove collocare la prima pietra del Not del futuro. Pensando cosa diranno di noi i nostri nipoti.