Gli ottant'anni della Portela: il tempo della clandestinità
Dopo il bombardamento della Portèla era cominciato anche il tempo della paura. L’urlo della sirena ti colpiva a tradimento soprattutto di notte
PRIMA PARTE La strage della Portela
SECONDA PARTE La guerra arriva dal cielo
TERZA PARTE Dopo le bombe l'armistizio
QUARTA PARTE La speranza di pace dura poco
QUINTA PARTE I tedeschi prendono il controllo
SESTA PARTE Un esercito in rotta
SETTIMA PARTE Gli italiani come schiavi
OTTAVA PARTE Una marcia verso il Brennero
NONA PARTE Si gettano le basi dell'autonomia
LA GALLERY Le immagini dopo il bombardamento
Era cominciato il tempo della clandestinità. Nel 1979 Beppino Disertori tratteggiando il profilo di Assunta Gottardi moglie di Giuseppe Ottolini il primo prefetto di Trento per nomina del Cln scriveva – e il giornalista Mauro Lando lo riporta nel suo Dizionario Trentino – che dopo l’8 settembre del 1943 era stata creata l’Agenzia trentina di salvataggio con il compito di soccorrere i perseguitati politici, cercando di farli espatriare verso la Svizzera trasferendoli a Como, facendoli alloggiare a Brunate, il minuscolo paese sopra la città caratterizzato da vasti boschi, affidandoli a fidati spalloni, contrabbandieri che conoscevano ogni passaggio nella zona fra Cernobbio e il confine svizzero.
Disertori ricorda anche che Assunta Gottardi custodiva in bottigliette di profumo gli inchiostri detti simpatici, usati per scrivere le missive segrete. L’uso di quei particolari inchiostri era stato introdotto dallo spionaggio soprattutto in Francia, durante la Grande Guerra. In una lettera scritta a penna, oppure a matita – si usava molto il lapis copiativo – si inserivano le frasi e i messaggi segreti in una pagina preventivamente concordata, vergate con inchiostro invisibile. Chi riceveva la lettera la leggeva quasi sempre alla luce di una candela che faceva risaltare lo scritto.
Certi inchiostri si dissolvevano pochi minuti dopo essere stati illuminati da una qualsiasi luce. Insomma, un eventuale censore – e la posta in quell’epoca era spesso sottoposta al controllo della censura – non si sarebbe accorto, maneggiando la missiva, che il messaggio era sparito. Dopo il bombardamento della Portèla era cominciato anche il tempo della paura. L’urlo della sirena ti colpiva a tradimento soprattutto di notte e mentre il suono diventava sempre più acuto sentivi crescere un fastidio nella pancia e cominciavi a scappare, a correre mentre il fiato diventava sempre più corto, ansimante, quasi un rantolo. Non ti guardavi attorno, avevi capito che dovevi pensare solo a te e scappare, scappare, verso il rifugio più vicino. Anche gli altri correvano. Soprattutto donne e ragazzetti e bambini perché non c’erano uomini. Erano chissà dove.
Nei campi di concentramento o nelle fosse comuni o negli ospedali. Oppure a lavorare come schiavi in Germania e i più fortunati, quelli rimasti a Trento, a sgobbare nelle industrie strategiche: la Sloi, la Italcementi, la Michelin, alla Caproni di Gardolo dove, un pezzo alla volta, si costruivano aerei che una alla volta venivano collaudati da un unico pilota: Enrico Cattani. Fabbricati a mano mentre in Germania, in America, in Russia – ma questo lo si venne a sapere a guerra finita leggendo il settimanale Tempo – li assemblavano alle catene di montaggio. Uno dopo l’altro. A migliaia. Nel rifugio si entrava attraverso un pertugio aperto sotto il muro paraschegge. Ci si infilava uno dopo l’altro in un budello scavato nella roccia che, di colpo, s’allargava in una sorta di stanzone illuminato da una lampadina appesa al soffitto, fra lo scalpiccio di decine di piedi, una voce che chiamava un nome, un puzzo di flit, di naftalina e poi sempre più insopportabile, l’odore di orina, di vomito, di sterco, di vestiti sporchi, di paura.
Si perché anche la paura ha un suo odore: di sudore, di alito, di sporcizia, di escrementi. I bambini, quelli più piccoli, venivano spinti verso una caverna un po’ più illuminata della altre. C’erano alcune culle di vimini, un forte odore di disinfettante, una brocca di metallo smaltato piena d’acqua, un paio di crocerossine vestite di bianco, la croce rossa cucita sulla tunica. Dicevano ciao, facevano sedere i bambini più grandicelli su una panca, uno a fianco dell’altro. I maschietti da una parte, le bambine dall’altra. Del resto anche a scuola e in chiesa i maschi erano da una parte, le donne dall’altra. Anche alle radunate e nelle parate del regime i Balilla con il loro moschettini sfilavano prima delle Giovani Italiane. “Mani in seconda” diceva la crocerossina e una aveva molte mostrine cucite sul petto segno delle zone di guerra dove era stata trasferita nella tragedia degli ospedali da campo e a quel comando si mettevano le mani dietro la schiena e si stava fermi perché i bambini avevano imparato subito le regole non scritte del rifugio.
Stare fermi, in silenzio, respirare piano, guardare gli insetti che giravano attorno alla carta moschicida e s’appiccicavano con un ronzio che pareva un sussulto. E aspettare. Era stato all’inizio dell’inverno del 1944 che fu di fame, di freddo, di neve e di angoscia, che si decise di tenere il più possibile i bambini più piccoli nel rifugi scavati in tutta fretta in piazza Venezia e su, alla Busa, dove ancora si vede l’entrata di quel budello nella roccia dal quale molti uscirono solo nel maggio del 1945. Nel rifugio i più anziani, i più deboli, le donne meno giovani stavano seduti su panche strette e addossate alla roccia dove l’umidità diventava gocce d’acqua. Gli altri in piedi. O accovacciati su minuscoli sgabelli. Con le mani sulla valigetta che conteneva le cose più preziose: i documenti di identità, il lasciapassare, la tessere annonaria, i più fortunati il libretto di banca, gli oggettini d’oro, magari le posate d’argento ricevute come regolato di nozze, le maglie di lana, un paio di scarpe, qualche cosa da mangiare avvolto nella carta oleata. Molti avevano in mano una pila a dinamo che faceva uno strano rumore e una luce intermittente. Schiacciavi continuamente una linguetta di bachelite e la luce si accendeva. Come succede con la dinamo dei fanali delle biciclette.
Solo che con quelle la luce è continua perché la ruota gira con regolarità; invece con la dinamo a mano era alternata, fioca, tremolante. Poi sentivi sparare i cannoni. Fuori, oltre il muro paraschegge, la battaglia era cominciata. Colpi secchi, rapidi, uno dopo l’altro che facevano sobbalzare. E sentivi il rombo dei motori degli aeroplani che arrivavano e tutto cominciava a tremare. Prima la lampada e la carta moschicida, poi il terriccio e la sabbia sul pavimento, le assi gettate sopra i rigagnoli che raccoglievano l’acqua che veniva giù dalla roccia e portava all’esterno anche i liquami delle latrine. Tremava la roccia, si spegneva la luce, s’accendevano le lampade a dinamo, le chiamavano ceche, e tutti gli occhi si rivolgevano verso una nicchia dove la voglia di religiosità della gente aveva collocato una statuina della Madonna con quel cero acceso davanti ad una miriade di rosari, segno di grazie ricevuto o più semplicemente implorate e attese. I cannoni tuonavano con forza e rapidità crescente. Poi si sentivano le esplosione delle bombe. Era come un tuono, nel rifugio tutto vacillava e a volte, dentro la galleria, il buio diventava totale perché la gente era così impaurita da non aver più la forza di azionare le dinamo delle ceche. Quel buio era tremendo.
Ti sentivi soffocare perché l’aria era piena di polvere, di odori tremendi. Avevi paura perché qualcuno gridava, qualcuno piangeva forte, qualcuno malediva, qualcuno implorava. O gridava dei nomi o quel “Madonna aiutaci tu” che finiva in singhiozzi. Una volta la radio aveva detto che nei rifugi il popolo in guerra doveva intonare le canzoni della patria. Così prendeva coraggio, così affrontava, beffandolo nel puro stile fascista, il pericolo. Il canto di alcuni sarebbe bastato a rincuorare tutti. Eravamo o no un popolo di combattenti e di eroi? Mussolini aveva detto che “gli italiani sono tutti leoni”. Non ho mai sentito cantare nel rifugio. Una volta sentii cantare su un treno fermo in mezzo alla campagna fra Brescia e Desenzano. C’era un allarme aereo su Verona, il buio era totale, era fortissimo il frinire dei grilli, ma forse erano le cicale o le rane del vicino fossato. Era l’unico rumore, di tanto in tanto rotto dall’ansimare della locomotiva. Sul treno, era poco prima dell’8 settembre. C’ erano molti soldati italiani; si alzò il canto caro all’Impero, quel Sole che sorgi sui colli fatali di quella Roma destinata per volere supremo a guidare il mondo. Ma adesso che l’Impero non c’era più e invece c’erano i tedeschi, i bombardamenti, la paura, la fame, nessuno aveva voglia di cantare. O meglio, qualche volta cantavano le donne un canto che parlava di Maria, di stelle lucenti meno belle della Vergine. Ma sempre quel canto finiva in un confuso mormorio di preghiere, di singhiozzi, di pianti quando gli schianti diventavano più vicini, più forti e si sentiva vomitare, gridare “Madonna aiutaci tu” mentre la galleria si riempiva di una polvere sottile e la fiammella della candela accesa davanti alla Vergine nella nicchia oscillava e si spegneva. Poi il rombo degli aerei cessava.
Anche i cannoni tacevano e tornata la luce nel budello di roccia, riprendeva a funzionare anche una sorta di ventilatore che nella galleria sembrava accrescere l’orribile tanfo. State fermi, aspettate, non uscite, aspettate la sirena del cessato allarme. La voce era quella di un uomo che aveva sulla testa un elmetto della Grande Guerra, quelli piatti, oggi ricercatissimi dai collezionisti. Era anziano, forse era un personaggio autorevole, diceva che bisognava attendere la sirena del cessato allarme. Prima non si poteva uscire dal rifugio perché l’aria era rigata dal sibilo, sembravano suoni di violino, di miglia di schegge delle granate antiaeree. Erano esplose fra le formazioni dei bombardieri, oltre i quattromila metri ed ora, una dopo l’altra, piombavano al suolo. Le schegge erano quasi tutte delle stesse dimensioni, grosse come i pugni di un uomo, avevano i bordi taglienti come rasoi e bisognava aspettare prima di raccoglierle perché scottavano e poi si dovevano mettere in una sorta di cassapanca di legno. Ma forse, nelle cassapanche di legno c’era la sabbia da gettare sulle fiamme causate dagli spezzoni incendiari. Si anche nei solai dai quali dovevano essere eliminati tutti gli oggetti infiammabili, erano stati collocati secchi pieni d’acqua e di terriccio per spegnere le fiamme delle bombe incendiarie. C’erano anche rotoli di coperte militari da gettare sul fuoco per soffocare gli incendi e i manifesti a colori affissi qua e là ti dicevano come comportarti prima di abbandonare la casa e correre al rifugio.
Il capo caseggiato doveva bloccare la valvola del gas e quella dell’acqua, staccare le valvole della corrente elettrica, controllare che tutti uscissero dall’edificio dopo avere chiuso la porta dell’appartamento a chiave. E’ vero, per gli sciacalli era prevista la fucilazione, ma il rischio del furto era sempre in agguato. Ogni inquilino doveva spegnere la stufa di casa con secchi d’acqua, spalancare le finestre perché i vetri non si rompessero sotto la sferza delle onde d’urto, prendere la maschera antigas e la borraccia dell’acqua, accompagnare gli anziani lungo le rampe delle scale, tenere i bambini per mano, dirigersi con calma e compostezza nel rifugio più vicino. Era l’Italia fascista e guerriera che affrontava la battaglia aerea con accorgimenti raccolti in manuali datati 1918. Dopo ogni incursione era obbligatorio raccogliere i fasci di pagliuzze lunghe, sottili, di metallo leggero e lucente. Venivano gettati dagli aerei per confondere i sistemi di mira dell’artiglieria contraerea. E c’erano anche brandelli dei paracadute dei bengala, quelli che illuminavano la notte in maniera così forte che se uno avesse avuto il coraggio di farlo, avrebbe potuto leggere il giornale in piazza Duomo.
Si, è vero. I bengala scendevano lenti, a decine e illuminavano la città. Si vedeva luccicare il tetto della Torre Verde, il corso della Fersina diventava d’argento, sul prato davanti al palazzo delle Dame di Sion si vedevano ballare le grandi ombre create dagli alberi. Ombre e lucciole nell’estate e le sberle della mamma che cercava per spingerti nel rifugio. Quando la notte era piena di bengala, quelli dell’Unpa aprivano i bidoni dei fumogeni e un fumo caldo, soffocante, denso doveva oscurare ancora di più il cielo della città e confondere i puntatori dei bombardieri.
(10. continua)