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Giacomo Matteotti: 100 anni fa il delitto di regime che svelò il vero volto del fascismo/6

Da decenni sappiamo che il capo dei sicari aveva raccontato, la sera stessa del delitto, come il rapimento si era trasformato in omicidio; il fatto era stato riferito al Duce che, probabilmente, avvertì i suoi ministri che gli assassini erano fascisti
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di Luigi Sardi

Il mese di giugno sta per finire e i quotidiani indipendenti sembrano sul punto, con la forza dei loro articoli, di far crollare il fascismo. E’ il tempo degli ultimi aneliti della libertà di stampa e “il nuovo Trentino” svetta su molti altri quotidiani con un pezzo firmato da Angelo Giacomo Mott che è un durissimo atto di accusa al fascismo.

La firma di un articolo era rarissima perché in quell’epoca di violenze si rischiava il manganello fascista e l’olio di ricino, fascista anche quello, se si scriveva un articolo contro il Governo. Mott non aveva paura, scrisse e firmò: “Il senso di orrore e la ribellione della coscienza di tutto il popolo italiano, manifestata così francamente per il nefando delitto consumato sulla persona dell’on. Matteotti, hanno un significato ed una importanza che sorpassano l’entità del caso concreto”.

Ecco l’articolo indicare “una mentalità nuova e un nuovo ambiente formatasi nell’animo della Nazione in questo ultimo periodo di governo fascista; mentalità ed ambiente, i quali diedero perfino alla stampa ed alle persone singole, la possibilità di affermare apertamente la propria riprovazione per il perpetuarsi dello stato di illegalità, di anarchia e di omertà vigente al margine del partito fascista”. Si sta concretizzando un cambiamento nella mentalità della gente; “è in realtà uno spirito nuovo, quello che oggi caratterizza la vita politica italiana. Il movimento fascista si fondava infatti su un equivoco che presto o tardi doveva presentarsi in tutta la sua acutezza e noi attendavamo con sicura fede l’avvento di questo momento, nel quale le circostanze dovessero rendere improrogabile la risoluzione del travaglio che vegliò il nascere e che accompagnò l’imporsi della corrente fascista. Certo, sperammo sempre che l’occasione non dovesse essere un delitto, non conosciuto finora nella storia politica della Nazione italiana”.

Mai prima di quell’ articolo del 22 giugno, il fascismo subì, almeno nel Trentino, un simile attacco dalla stampa e il pezzo continua: “Questo delitto, che gli autori ed i mandanti speravano gettare nell’oblio come altri misfatti compiuti, per omertà e per impunità prestabilite, è un fermento che mette a nudo molti focolai di marcio, è una goccia d’olio che si espande e minaccia di raggiungere posizioni e responsabilità altissime. E più che orrore per le persone implicate nel fatto concreto, il popolo sente orrore e ribellione per il sistema, per il metodo, per l’organizzazione della violenza, per le camarille (combriccola, cricca, cosca, banda, gang, nda) che facevano cornice a personalità influentissima del regime sedicente ricostruttore di valori morali quali Rossi, Filippelli, Marinelli”.

Certo, Angelo Giacomo Mott nato a Fiera di Primiero il 3 luglio del 1902 quando il Trentino era terra d’Austria, era un uomo di grade cultura. Medico, senatore nelle prime quattro legislature della Repubblica, era stato molto attivo nelle file del Partito Popolare e dal 1920 amico e collaboratore di Alcide Degasperi. Dopo l’8 settembre del 1943 si unì ai protagonisti della Resistenza. Dal 1953 al 1958 ricoprì incarichi di Governo: sottosegretario alle Finanze e al Tesoro, nonché Alto Commissario per l’igiene e la sanità. È stato anche vicepresidente della Federazione dei consorzi cooperativi di Trento, presidente della Società Avisio e presidente della Fiera Campionaria della città allestita nell’edificio delle scuole Sanzio. Uomo di cultura, coraggio e ottima visione politica, scrive sempre in quell’ articolo: “Il sacrificio del Matteotti non riuscirà vano, il fascismo è messo con le spalle al muro. O ritorna ad un possibile ritmo di vita civile e politica, oppure assume la corresponsabilità di tutti i delitti commessi. Ma in questo secondo caso l’orrore della Nazione diventerebbe esecrazione contro lo stesso fascismo”.

Da ricordare che è stato padre di Luigi che a Trento aprirà lo studio di notaio. All’inizio dell’estate del Ventiquattro, poteva accadere il declino, e forse la fine del fascismo; invece quell’auto esiliarsi sull’Aventino, congelò la rivolta politica, sfarinò l’opposizione, mantenne quasi immutati i dubbi di quanti spaventati dalla rivoluzione sovietica, dalla rivolta spartachista, la “Spartakusaufstand del gennaio 1919 contro il governo della Repubblica di Weimar e dagli Arditi dei Popolo con personaggi assai simili, per la violenza, ai fascisti, guardavano ancora con simpatia a Mussolini. Mott insiste, con garbo, ma determinazione. “Noi crediamo che una dittatura non sia più possibile per i sintomi di insofferenza mostrati dal popolo in questa occasione perché la dittatura ha bisogno del suo idolo e oggi l’idolo Mussolini diventa uomo sindacabile anche per i suoi adoratori i quali cominciano già a discutere i suoi atti. Il governo fascista se vorrà mantenersi al potere dovrà rivedere il suo programma. O meglio, creare il programma che gli manca: dovrà diventare un partito legalitario. Dovrà rendere la libertà a tutti i cittadini e far valere sempre la legge. Dovrà sostenersi con il consenso non con gli argomenti rifritti delle duecento mila baionette”.

Sedici anni dopo le baionette diventeranno tragicamente otto milioni che porteranno gli italiani contro l’Abissinia, nella guerra civile di Spagna, contro la Francia, l’Inghilterra, la Grecia, l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti d’America nell’ orrore dell’alleanza con Hitler dettata anche dal timore di perdere l’Alto Adige. Dal “Giornale d’Italia” arriva un allarme: il Governo starebbe approvando “severe misure contro la stampa, s’intende di opposizione”. Il giornale fondato nel 1900 da Sidney Sonnino e Alessandro Salandra, due personaggi di grande rilievo nella storia nazionale soprattutto nel tempo delle Gande Guerra, era molto attento agli sviluppi politici di quel momento, era apertamente contro ogni censura provata dagli italiani nel tempo della guerra quando era stata vietata la pubblicazione dell’appello di Papa Benedetto XV sulla "inutile strage". L’espressione del Pontefice male interpretata e strumentalizzata, suscitò, appena conosciuta, più proteste che consensi. In Italia e in Francia, Benedetto venne giudicato addirittura al servizio della Germania tanto che Georges Clemenceau definì Benedetto XV il "Pape boche", ovvero "Papa tedesco".

Alla Conferenza di Parigi del 1919, il ministro francese ottenne che la Germania venisse messa in ginocchio sia politicamente che economicamente, con l'imposizione di forti compensazioni di guerra e l'occupazione militare della Renania. Di fronte alla crescente mobilitazione della stampa attorno al delitto, i vertici del fascismo pensarono di ricorrere alla censura. Sarà Farinacci dalle colonne di “Cremona nuova” a scrivere che “la stampa deve essere assolutamente controllata”. Quel capopopolo, o meglio “ras” fedelissimo fra i fedelissimi, si era subito allineato sulle posizioni di Mussolini, addirittura scavalcando il dettato del Duce, facendo capire che quanto era accaduto, non sarebbe successo se si fossero seguiti i suoi consigli. Poi il 3 luglio di quell’anno, aveva ribadito che il fascismo “avrebbe dovuto promulgare subito, dopo la nostra rivoluzione, leggi eccezionali, che la Milizia non si deve toccare e in quanto al processo politico, noi rispondiamo che il regime non si fa processare se non dalla storia”. Intanto serve la censura.

La “Stampa” di Torino capisce che il Duce ha deciso di reagire al crescendo delle accuse e “il nuovo Trentino” riprende l’articolo intitolandolo “Mussolini alla riscossa”, aggiungendo che “il Presidente del Consiglio ha taciuto nei giorni scorsi, ritenendo che il silenzio fosse la tattica più opportuna; ma ora ritiene finito il tempo del tacere e interviene nella colossale disputa suscitata dall’affare Matteotti”. Ancora dal giornale di Trento: “Il Governo era perfettamente ignaro di quanto è avvenuto; non era partecipe né materialmente né moralmente agli intrighi orditi per la soppressione dell’on: Matteotti; [Mussolini] se avesse avuto sentore del piano criminoso, lo avrebbe disapprovato e avrebbe tentato di impedire l’esecuzione. Fatalmente taluni esponenti del nuovo regime hanno, con iniziative personali, concepito e favorito l’esecuzione del delitto al quale i membri del Governo sono rimasti completamente estranei. Bisogna dunque - secondo il Governo - compiere inesorabilmente il processo al delitto, ma non convertire tale processo in un processo al Governo”.

Si arriva al dibattito in Senato dei giorni 24 e 26 giugno e il discorso del Duce definito pacato, si può raccogliere in poche righe. Il Governo resta al suo posto; per il delitto si sarebbe fatta giustizia inflessibile senza guardare in faccia ai colpevoli; la Milizia non verrà sciolta e le richieste di nuove elezioni sono assurde. Mussolini era stato confortato dalla grande adunata di quarantamila Camicie Nere che a Bologna gli avevano rinnovato la loro fede levando in alto i loro pugnali al grido di “a noi” ripetuto tre volte. Disse Mussolini il 7 agosto al consiglio nazionale del partito: “Ho avuto in quei giorni passati, il senso dell’isolamento, perché i saloni di Palazzo Chigi, così frequentati negli altri giorni, erano deserti come se una bufera vi fosse passata” perché i fedelissimi erano scomparsi, un po’ per mettersi al riparo dalla citata bufera, un po’ perché erano venuti a galla invidie, responsabilità, odi, rancori, vendette per carriere stroncate, voglia di approfittare del momento per farne delle altre, addirittura il tentativo di coinvolgere per prendere il suo posto, Mussolini nel delitto. Una faida in piena regola fra sospetti di affarismo con la Santa Sede che il 2 agosto, per voce del Cardinale Pietro Gasparri, incontrando il corpo diplomatico accreditato in Vaticano, aveva detto che “abbattere il Governo Mussolini avrebbe voluto dire mettere il Paese a ferro e sangue. Bisognava avere pazienza, restare calmi perché questo era il pensiero del Papa Pio XI”. C’era un altro aspetto che inquietava le sante stanze. Nelle piazze i comunisti cantavano “avanti popolo, tiriam le reti - vogliamo i preti a lavorar. E con la pelle dei monsignori - facciamo scarpe ai lavoratori”.

E se questo potava apparire folcloristico, preoccupava molto quell’essere anticristiani che susciterà spavento pochi anni dopo in terra di Spagna quando gli anarchici fucileranno il Crocifisso mentre chiese, conventi e anche cimiteri, dove vengono riesumati i cadaveri di religiosi e di religiose per poterli profanare e per poter infierire su di essi. Un massacro nel tentativo di eliminazione totale di una parte intera della popolazione spagnola, quella costituita dagli ecclesiastici e dai religiosi, uomini e donne. Momento tragico e straordinario quello del delitto Matteotti. Il fascismo poteva crollare e Mussolini tornare al suo mestiere: il giornalista che lo sapeva fare molto bene. Il movimento fascista che sembrava capace di risolvere la gravissima crisi del dopoguerra stava deludendo, o meglio spaventando, gli italiani. Certo, l’Italia aveva vinto grazie agli americani, gli inglesi, i francesi, i sacrifici tremendi dei giovanissimi uomini, quelli della classe 1899, i “ragazzi del Novantanove” massacrati ancor prima d’avere cominciato a vivere. Si era accostata al fascismo che appariva capace e deciso a risanare le ferite aperte da molti anni di mal governo e dalla crisi del dopoguerra, ma di deviazione in deviazione, il partito era arrivato al punto di costituire il più grave elemento di sconvolgimento della vita nazionale. Gli italiani frastornati dalle conseguenze dalla guerra, dalla tremenda spagnola, quella febbre che aveva decimato la popolazioni di mezzo mondo, serrati nella miseria, nella mancanza di lavoro con una moltitudine di invalidi e nella convinzione che la nostra era stata una “vittoria mutilata” come si narrò a quei tempi, credevano che Mussolini fosse l’uomo capaci di risanare la Nazione. Ma dopo due anni di governo e con l’ombra di quel delitto, il partito fascista cominciava a dare fastidio ai cittadini che volevano pace, serenità, lavoro.

Forse i fascisti di strada e di poltrona vennero più odiati dei bolscevichi che nel 1919 sembravano impadronirsi delle piazze al grido “alla stazione, rivoluzione, tuona il cannone il comunismo vincerà”. Dunque, da un parte Benito Mussolini, già giornalista a Trento con Cesare Battisti eletto come “sublime martire” (c’era anche Ernesta Bittanti socialista convinta, fra le prime donne laureate e femminista, ma non degna di considerazione perché donna, nda) che si mostrava con il cappello a cilindro, chiamato ironicamente tubo di stufa, però calzato con civetteria e la sigaretta in bocca; dall’ altra Lenin, pseudonimo di Vladimir Il'ič Ul'janov, russo, rivoluzionario, capo dei misteriosi però sanguinari “soviet” (e nel 1947 si dirà che mangiavano i bambini, ma si era in piena campagna elettorale, nda). Scelsero il fascismo, ma nei giorni del delitto soprattutto quelli appollaiati sull’ Aventino non capirono che da molte parti d’Italia si levava un grido di libertà. Come venne scritto dall’Associazione dei Liberi Fascisti, presente soprattutto nelle Marche e apparso nella stesura delle “Linee programmatiche” di quei camerati, molti dei quali universitari, che volevano un fascismo diverso. Nell’estate del 1924 la libertà di stampa era ancora totale.

Ecco “il nuovo Trentino” che con Degasperi manteneva una linea giornalisticamente corretta però moderata, descrivere la figura di Giovanni Marinelli, Caporale d’onore della Milizia “che cercava di apparire come uno degli elementi più equilibrati del fascismo; invece è noto che fu sempre fra coloro che ostacolarono in tutti i modi la normalizzazione della vita politica italiana, lavorando a che il fascismo rimanesse più che un partito, un movimento guerriero. Inizialmente imputato per il sequestro (non per l'omicidio) del deputato socialista, ricercato come mandante del sequestro, si consegnò alla polizia il 22 giugno” ma, al contrario degli altri due coimputati Filippo Filippelli e Cesare Rossi indicati come mandanti, organizzatori e favoreggiatori, non accusò mai esplicitamente il Duce come mandante principale del sequestro. Rimase in carcere 18 mesi, uscendone solo alla fine del 1925, e non venne mai processato in quanto il reato venne estinto dall’amnistia del 31 luglio 1925. Fu considerato fondatore e tesoriere, se non su ordine, perlomeno con l'assenso e il tacito appoggio di Mussolini della "Ceka fascista" o "Ceka del Viminale”.

Spiega ancora il giornale di Trento: “Il Marinelli proviene dal movimento socialista rivoluzionario e seguì Mussolini quando uscì dal partito; da ricordare che è stato una delle personalità più rappresentative del partito e che ebbe la carica di segretario amministrativo e fu tra coloro che rifiutarono la nomina a deputato per rimanere capo dell’organizzazione. Qualche giorno fa dopo le dimissioni di Cesare Rossi, Mussolini allargò il numero dei componenti il Direttorio, ma non vi riammise il comm. Marinelli silurandolo in silenzio. Questo fatto diede origine ai più vivi commenti nel campo fascista e subito si comprese che Marinelli era vulnerato dalle ragioni che hanno portato al suo arresto”.

(6. Continua)

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