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Giacomo Matteotti: 100 anni fa il delitto di regime che svelò il vero volto del fascismo/7

Ecco il nuovo Trentino con il titolo “La situazione creata dal delitto politico” scrivere “che l’assassinio ha provocato una rivolta morale inattesa e irrefrenabile nel popolo italiano… Don Sturzo, facendo la solita passeggiata, venne fatto segno ad atti di rispetto e saluto da gente mai conosciuta

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di Luigi Sardi

Ecco il nuovo Trentino con il titolo “La situazione creata dal delitto politico” scrivere “che l’assassinio ha provocato una rivolta morale inattesa e irrefrenabile nel popolo italiano… Don Sturzo, facendo la solita passeggiata, venne fatto segno ad atti di rispetto e saluto da gente mai conosciuta.

Era l’anima del popolo anonimo e paziente che reagì istintivamente alla violenza… fu lo scoppio dell’indignazione pubblica che armò l’opposizione e diede un significato alla sua astensione e la stampa cominciò a parlare con una libertà inaudita [sic] e il Viminale cominciò a vacillare”. La maggioranza governativa viene chiamata pletorica e si scrive che il Re “dovrebbe provvedere con altri uomini a garantire l’ordine e la giustizia” e Degasperi che con la firma (vice) scrisse quell’articolo, indica nel gerarca Luigi Federzoni l’uomo da mettere al posto di Mussolini: “L’on. Federzoni è uomo forte, probo, che manterrà la sua parola. Lasciamogli fare l’esperimento; o il fascismo ci si adatta ed avremo la normalizzazione, ovvero avremo un conflitto Federzoni - Mussolini e allora Federzoni sa già fin d’ora che l’opinione pubblica sarà con lui”. Nell’estate di quell’anno il giornale di Degasperi non era decisamente contrario al fascismo, ma a Mussolini e alla sua corte; vedeva in Federzoni, che pare non abbia mai giurato fedeltà al fascismo.

Il personaggio adatto a prendere il posto del Duce. Da ricordare che nella seduta del Gran consiglio del fascismo del 25 luglio 1943 fu tra i firmatari dell'ordine del giorno contro Mussolini e per questo nel 1944 fu condannato a morte dal tribunale fascista di Verona. Ma si era rifugiato nell'ambasciata del Portogallo in Vaticano e dopo la liberazione della Capitale lasciò l’Italia per tornarvi nel 1945. Condannato all’ergastolo dall’ Alta Corte di Giustizia chiamata a giudicare i crimini del fascismo, venne amnistiato due anni dopo. Ma ecco, quasi alla metà di luglio, il convegno dei segretari provinciali del Partito Popolare Italiano, il PPI dominato dal discorso di Degasperi.

Alcuni cenni: “Nel Paese, dopo il delitto di Roma, si ebbe la netta sensazione che il PPI doveva mettersi in una linea difensiva assieme alle altre minoranze, perché apparve manifesto che Matteotti era caduto come vittima della tribuna parlamentare dalla quale aveva elevata fiera protesta contro l’enorme sopruso compiuto a danno di tutte le minoranze nelle ultime elezioni… si comprende l’urgenza e il dovere di fare ogni sforzo per riguadagnare alla nostra vita civile le più elementari condizioni di libertà”. La libertà di stampa era ancora intoccabile e il giornalismo stava mettendo alle corde il fascismo mentre l’opposizione politica si era imbavagliata nel silenzio dell’Aventino, troppo lontana da Montecitorio unico simbolo e luogo per difendere la democrazia quindi la libertà e dalla gente. C’è anche un articolo a confermare che le indagini hanno stabilito che il delitto venne organizzato a Milano dai sicari della ceka, che l’ on. Matteotti fu finito con una pugnalata al collo, il colpo adottato dai Caimani del Piave perché uccideva all’istante così la vittima non poteva gridare né c’era il rantolo che avrebbe potuto allarmare i soldati vicini all’ aggredito. Insomma, un colpo perfetto. Intanto si continua a cercare il cadavere di Matteotti raccontando - e anche il questo assurdo capitolo primeggia il nuovo Trentino - che il cadavere è stato ficcato in una cassa, ma poiché un braccio non entrava, venne spezzato. Si è trovato, ma non si capisce dove, “un brano di giornale bruciacchiato; potrebbe essere un ritaglio dell’Idea Nazionale ed è stato trovato anche un pezzo di un altro quotidiano che porta la data del giorno del delitto” per arrivare al colmo delle notizie false: il cadavere consegnato all’istituto di medicina legale del Policlinico, è stato traslato al Verano e sepolto nel “campo 51, fila IV, fossa 24”.

Venerdì 8 agosto. Il giornale di Trento pubblica con il titolo “Il travaglio del fascismo”, un articolo che ripubblicherà sabato 9 agosto perché l’edizione di venerdì era stata sequestrata, non si capisce da chi e per quale motivo mentre risbuca il nome di Filippo Naldi definito “l’uomo che inventò Mussolini” perché era stato quello che nel 1914 aveva trovato i danari necessari a fondare Il Popolo d’Italia al giornalista che aveva dovuto lasciare la direzione dell’ Avanti! il famoso organo del socialismo italiano. Ma arrivato alla guida del Governo, “il Duce lo ha tenuto al bando come un appestato”. Nel trapassato remoto si è discusso a lungo sui personaggi della cultura che avevano avuto un ruolo nel consolidamento del fascismo. Così nell’estate del 2024 a Rovereto, nella meraviglia del Mart, da un’idea di Vittorio Sgarbi e dalla bravura di Beatrice Avanzi e Daniela Ferrari che l’hanno allestita con maestria, ecco la mostra Arte e Fascismo. L'esposizione - riprendo testualmente una nota che la introduce - “analizza i vari e complessi modi in cui il regime fascista influì sulla produzione figurativa italiana, utilizzando a fini propagandistici il linguaggio dell'arte”.  Ancora da quello scritto: “La tradizione dell’arte italiana, trova varie declinazioni, dal rinnovato sguardo ai maestri antichi dei protagonisti di Novecento fino a più radicali affermazioni di un’arte di propaganda volta alla costruzione del consenso”.

Con una certezza: Mussolini nei giorni più aspri attorno al delitto Matteotti riuscì a conservare le redini del Governo sempre più violento ma non ancora una dittatura, con la sua capacità di tribuno e, anche, con l’arte e aiutato da personaggi di spiccata cultura. Certo, “nell’arte non c’è fascismo e nel fascismo non c’è l’arte”, come ha scritto Sgarbi, ma molti intellettuali, scrittori, artisti sono stati fascisti. Ecco uno dei più fedeli: Mario Sironi. Come scrissero quanti studiarono la sua arte, il fascismo significava per Sironi, il sogno di una rinascita dell'Italia, e quindi dell'arte italiana. Ma anche il desiderio di andare verso il popolo, per usare l'espressione mussoliniana: dunque il sogno di un'arte destinata non ai salotti, per i facoltosi collezionisti, ma alle piazze e ai muri degli edifici, alla portata di tutti. Anche lui ebbe una musa; Margherita Sarfatti in cui Sironi si riconosceva, vista la solida amicizia con la scrittrice. Lui è stato il creatore delle vignette publicate da Il Popolo d’Italia. Ecco quella che raffigura “Il nuovo governo che si presenta alla Camera”.

I deputati sono puntini sui loro scranni dominati da un gigantesco fascio littorio. C’è quella del 12 luglio 1924 - siamo già nel pieno della tragedia di Matteotti - dove l’opposizione è rappresentata da uno scorpione e poi con la didascalia “Il castello del baro crolla” c’è il nome di Matteotti a sostenere la sgangherata costruzione, tipo un castello di carte da gioco, sul quale poggia la scritta Aventino. Ecco alcune ombre che s’affollano su quel colle di Roma dove la Nazione avrebbe potuto riscrivere la sua storia. C’ è anche lo scudo crociato con la scritta Libertas, simbolo dei Popolar”. Sarà dopo il 1945 la bandiera della Democrazia Cristiana sollevato da Degasperi, nel quale si ficca, però senza schiantarlo, il rosso falcetto del Partito comunista di Palmiro Togliatti. E c’ è raffigurato Degasperi che indossa l’abito talare, quello nero dei preti e il viso è disegnato come la testa di un corvo, immagine chi comparirà ben oltre le elezioni del 18 aprile del 1948 soprattutto su Candido, il settimanale politico-umoristico diretto da Giovannino Guareschi. Poi ci sono personaggi eminenti, come Fortunato Depero di Rovereto con la sua ode alla Camicia Nera - era obbligatorio scriverla con tutte le lettere maiuscole - intitolata A Passo Romano, stampata nella primavera del 1943 quando ormai erano in pochi a credere ancora nel fascismo (inviò 500 copie al Duce e 500 al Führer) che vennero distrutte, quelle italiane, dopo il 25 luglio del Quarantatrè e nell’ estate del 1945 quando si strapparono quasi tutti i segni del fascismo. A Trento restano, con le Scuole Sanzio, la Piazza Cesare Battisti già Piazza del Littorio e il monumento del Dos Trento, la stazione ferroviaria, il palazzo delle poste, la casa che fu del fascio con quella splendida scalinata interna e il maestoso bassorilievo di pietra rosa opera di Dario Fozzer, che ritrae un gigante con moschetto e badile, il braccio destro levato nel saluto romano, il puro saluto fascista come si legge nelle cronache de Il Brennero.

Ma l’opera d’ arte più eminente è la Donna del Flit in via San Pietro, mosaico del pittore Gino Pancheri. Venne chiamata così perché quella figura femminile in vero assai bella, dal volto superbo, impugnando il fascio littorio ricordava il casalingo strumento a pompa usato per spruzzare quel pestifero miscuglio che stecchiva le mosche. Appunto il flit. Un cenno al prestigioso pittore Gino Pancheri. Il 3 settembre del 1943 si trovava in piazza Dante con Egidio Bacchi fondatore ed editore della Temi, uomo di raffinata cultura, di fede socialista, personaggio di spicco nella Resistenza, il padre dell’editore Riccardo “Dodo”, quando sulla verticale della città comparvero 19 bombardieri americani che, cercando di centrare la stazione ferroviaria, distrussero il rione delle Portéla devastando la piazza. Bacchi gridò a Pancheri di sdraiarsi; una scheggia colpì il pittore nella schiena paralizzandolo. Nell’ ospedale di via Santa Croce venne curato da Mario Pasi, il medico che non faceva il saluto romano né portava la cimice all’occhiello del camice nonostante il brontolare dei colleghi e le occhiatacce dei fascisti in orbace. Pancherì morì la notte di Natale mentre Pasi che non era mai stato fascista, era già un soldato della Resistenza. C’ è nella storia della nascita del fascismo, la figura di Curzio Malaparte (all'anagrafe Curt Erich Suckert nato a Prato il 9 giugno 1898) giornalista, scrittore, poeta, diplomatico, agente segreto, figura molto importante dell’espressionismo letterario, che avrebbe vissuto per qualche tempo nel Sud Tirolo per tentare di capire come gli altoatesini, o meglio, i tirolesi, ovviamente devoti ad Andreas Hofer, si preparavano nel 1922, dunque dopo la Domenica di Sangue, a ribellarsi al fascismo e al Regno d’Italia che da austriaci li aveva, forzatamente, fatti diventare sudditi italiani. Non ci sarebbero minime tracce della sua presenza fra Borghetto e Innsbruck, salvo una ricerca del giornalista Massimo Infante capo servizio della redazione di Trento dell’ Alto Adige a partire dal marzo del 1959, che si era messo sulle tracce di quell’ eminente cronista definito “il più rivoluzionario dei fascisti e sfegatato di Mussolini” che il Duce fece arrestare - finì nella cella n.471 del 4° braccio di Regina Coeli - perché Hitler, appena giunto al potere, condannò il suo libro Tecnica di un colpo di stato ad essere bruciato sulla pubblica piazza di Lipsia, per mano del boia, secondo il rito nazista. Scrisse Malaparte: “Non contento di aver fatto bruciare il mio libro, Hitler chiese a Mussolini la mia testa, e l’ottenne. Lo stupore in Italia e fuori d’Italia fui grandissimo. Era la prima volta che uno scrittore italiano veniva imprigionato non per cospirazione, ma per la sua opera letteraria”.

Malaparte non lo poteva sapere, ma nel 1931 quando il libro comparve a Parigi, il Duce avrebbe fatto qualsiasi cosa per accontentare Hitler pur di non vederlo varcare in armi, il confine del Brennero. E nel 1939 come alleato sottomesso e terrorizzato ordinò l’allestimento a ridosso del Brennero sul confine ex austriaco, divenuto confine tedesco dopo l'annessione dell'Austria alla Germania il 13 marzo 1938, il Vallo Littorio quel succedersi di fortilizi, gallerie, caverne ben note ai militari dell’Esercito Italiano che li occuparono nel tempo della guerra fredda ben sapendo che in caso di attacco dell’Armata Rossa avrebbero fatto la fine dei topi. E’ bene ricordare visto gli ottanta anni passati, che per far cadere il fascismo è stata necessaria una guerra, la seconda guerra mondiale finita nel lampo della bomba atomica; nell’anno del Ventiquattro, Mussolini era riuscito a tenere in piedi la dittatura quando riuscì ad evitare lo sfaldamento della maggioranza eletta nel famoso Listone dove almeno 50 liberali, 30 o 40 ex combattenti fra i quali mutilati di guerra e fascisti meno violenti, erano considerati fascisti incerti” e pronti ad abbandonare il Duce vacillante. Che si dimostrò callido dicendo ai fedelissimi: “Voi vedete che la battaglia è difficile e delicata e ci vuole una strategia assai fine. Bisogna cloroformizzare, permettetemi questo termine medico, le opposizioni e anche il popolo italiano… Si tratta di gente che ha avuto prima il neutralismo, poi la guerra, poi il 19, 20 e il 21, gli anni del bolscevismo e delle Guardie Rosse, poi la rivoluzione. Ma la gente dice: basta. Non bisogna ferire questa sensibilità psicologica delle popolazioni, perché diverso è muoversi in un ambiente simpatico, dove le popolazioni vi accolgono, vi sorridono, ed un altro è muoversi in un ambiente ostile. Allora la battaglia sarebbe molto più difficile”. E al Farinacci, sempre fremente e con la voglia di sostituirsi a Mussolini, invia un lungo telegramma.

Lo invitava a tenere in quel di Firenze, un discorso molto modesto “che deve sorprendere tutta l’Italia per la sua moderazione. Devi agitare non un ulivo, ma un’intera foresta di ulivi. Dopo le giornate del Monte Amiata, minacce o intimidazioni farebbero effetto del grido al lupo al lupo. Il tempo delle minacce è passato. Devi toccare anche la nota collaborazionista dicendo che il fascismo non respinge nessuno; il tuo discorso deve distendere lo spirito della popolazione perché la battaglia è ormai vinta su tutta la linea, l’iniziativa politica ci appartiene; possiamo tenere un linguaggio moderato perché siamo sicuri della nostra forza per l’avvenire”. Il Duce riprese il suo antico ruolo di tribuno qualche volta violento nel linguaggio, oppure più mite tenute nel viaggio nella Toscana, una delle roccaforti del fascismo, per riprendere il contatto con le masse e frenare quei toscani che furono i fascisti più turbolenti. Arrivò ad Abbadia San Salvatore sul Monte Amiata luogo ricchissimo di acque termali e soffioni boraciferi, quelle emissioni violente di vapore acqueo ad alta pressione e temperatura che fuoriescono da spaccature del suolo dell’antichissimo vulcano, in quell’ epoca il più importante centro di estrazione del mercurio impiegato per i termometri, soprattutto nel campo degli esplosivi per i detonatori ed inneschi per cartucce. Si trovò di fronte i minatori, i lavoratori di quelle miniere che scendevano a 500 metri, oggi abbandonate, ma che facevano gola ad Hitler quando cominciò a preparare il suo esercito sterminatore e il Duce tenne il famoso discorso sul quale si imperniò la dittatura. “Vi assicuro che il clamore degli altri è molesto, ma perfettamente innocuo. Le opposizioni, tutte insieme, sono perfettamente impotenti. Il giorno in cui uscissero dalla vociferazione molesta per andare alle cose concrete, quel giorno noi di costoro faremmo lo strame per gli accampamenti delle Camicie Nere”. Frase che poi, in epoca successiva, divenne: “Farò di Montecitorio il bivacco delle mie Camicie Nere”. Insomma una variazione di linguaggio che non intacca la decisione di occupare Montecitorio e cancellare la libertà della politica, della stampa, delle idee. Il prologo della dittatura. Colpisce leggere nei giornali dell’epoca, che Mussolini venne accolto a Ferrara, Vicenza, Bergamo, Dalmine, Busto Arsizio da folle immense con il Duce a dire: “Fra poco, quando si saranno accorti che è inutile e alla fine è stupido mordere il macigno, credo che sulle pendici dell’Aventino sarà issato un cencio bianco e sentiremo dire come gli austriaci quando si arrendevano gridano bono taliano, implorare bono fascista. Noi aspettiamo tranquillamente, con assoluta certezza, questo giorno”.

Poi ad una legione di fascisti inquadrati nella milizia e di fronte a 328 deputati, il concetto che risulterà vincente: “La Camera può funzionare, e funzionerà malgrado gli artificiosi atteggiamenti degli avversari. Voi dovete prendere questo solenne impegno, di fronte alla Nazione, di fronte alla Storia. Gli assenti hanno e avranno torto”. Scrisse De Felice: “Si trattava di tastare il polso alla maggioranza e di saggiare lo stato d’animo dei parlamentari e dei personaggi di maggior rilievo del partito”. E ancora: “Che cosa si propongono i signori dell’Aventino? Di non scendere. Bene. La Camera funzionerà lo stesso. Alla insurrezione non ci pensano; del resto sarebbe soffocata”. Attorno al delitto si affollano le notizie. Ecco Amerigo Dumini interrogato a Regina Coeli. Nonostante che attorno agli interrogatori “è mantenuto il massimo riserbo”, si legge sui “il nuovo Trentino”: “L’on. Matteotti, trascinato a viva forza dentro l’automobile, fu ucciso quasi immediatamente. L’automobile recante il cadavere continuò la sua corsa fino al bosco di Vico. Là gli uccisori lasciarono il cadavere dietro una siepe tornando poi in automobile a Roma. Il Dumini si recò a trovare il Filippelli al Corriere Italiano e lo informò della consumazione del delitto. Il Dumini e il Filippelli pensarono, insieme agli altri complici, al modo di nascondere il cadavere. All’uopo, dunque, nella stessa notte da martedì a mercoledì, partì alla volta del bosco di Vito un’altra automobile sulla quale erano Giuseppe Galassi redattore del Corriere Italiano, ora a Regina Coeli per essere stato sorpreso lungo il mare a Nervi insieme con Filippelli che tentava di espatriare in Francia, e uno degli uccisori, il noto Volpi. Questi due andarono a rilevare il cadavere per nasconderlo in un luogo che il Dumini non può precisare. Sembra che il cadavere sia stato bruciato”. Un giallo in piena regola: con una certezza. Nessun atto giudiziario era stato reso pubblico. E il cronista, nonostante le raccomandazioni di Degasperi di evitare le notizie fasulle, aveva dato credito alla “voce” arrivata dalla Capitale. Ancora dalle pagine del giornale di Trento, un articolo su Amerigo Dumini, che di certo fu un taglia gole, come gli avevano insegnato a fare in guerra nell’orrore delle trincee del Piave. Veniva indicato come il probabile assassino di don Giovanni Minzoni. In un articolo de il nuovo Trentino si legge: “Le voci e le notizie che, di giorno in giorno, si raccolgono intorno all’attività malvagia ed assassina del Dumini, hanno formato ormai la convinzione che sia stato il feroce sicario di parecchie uccisioni di persone giudicate antifasciste. La circostanza che durante la stagione estiva (quella dell’agosto del 1923, nda) dimorante a Bellaria in quel di Rimini, abbia avuto particolari rapporti con organizzazione fasciste romagnole, ha dato credito al sospetto che possa essere stato autore o complice della feroce soppressione dell’arciprete di Argenta, il valoroso decorato di guerra Don Giovanni Minzoni”. Il giornale di Trento si dilunga sulla figura del sacerdote, già cappellano militare, medaglia d'argento al valore militare nel corso della prima guerra mondiale, antifascista, uomo di Popolari di don Sturzo e Degasperi. Venne ucciso il 23 agosto del 1923 “con una tremenda mazzata al cranio da due individui che lo seguivano in un vicolo poco illuminato…”.

I Popolari Invocarono una inchiesta da parte del Procurato del Re del tribunale di Ferrara, indagine che non venne mai conclusa.   Da tempo sappiamo che non fu Dumini ad uccidere. I due aggressori erano Giorgio Molinari e Vittorio Casoni due fascisti di Casumaro, una frazione del comune di Cento, in provincia di Ferrara che facevano parte della milizia comandata da Italo Balbo, il famosissimo trasvolatore atlantico. Il 27 luglio del 1922 Balbo aveva guidato le camicie nere all’occupazione di Ravenna. Tra il 27 e il 28 ci furono nove morti tra le squadre fasciste. Per rappresaglia, Balbo diede ordine di bruciare l’Hotel Byron, sede delle cooperative socialiste. Poi guidò una colonna di autocarri, che Mussolini chiamò colonna di fuoco e che incendiò e distrusse case di antifascisti nei comuni di Forlì e Ravenna. Anche quella fu una spedizione importante dopo la Domenica di Sangue a Bolzano. Però a dimostrare la costernazione suscitata dal delitto commesso nella Capitale, ma anche il valore di una libertà di stampa che dopo poco tempo verrà cancellata per riapparire nel maggio del 1945 a guerra finita, c’è l’articolo intitolato “La commemorazione dell’on. Matteotti - Il voto delle opposizioni - Un atto di pietà e di fede”. Il bersaglio è “La banda del Viminale”, cioè la Ceka, che dopo il delitto si era sgretolata. E’ proprio l’articolo sulla commemorazione che rende giustizia alle molte vittime degli oppositori alle violenze del fascismo: “Giacomo Matteotti immolato per un’idea, vittima per una causa di libertà e di giustizia, viene ad accrescere il numero di coloro che pagando di persona la propria convinzione, sugellata nel sacrificio più generoso e più puro. Nell’atto stesso in cui il pugnale di un sicario prezzolato toglieva quest’ uomo alla luce dei vivi ed un complotto politico avvolgeva nell’ombra la salma… lo accumunava ad altri eroi e martiri”. Della Libertà.

(7. Continua)

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