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Giacomo Matteotti: 100 anni fa il delitto di regime che svelò il vero volto del fascismo/8

 

È martedì 19 agosto 1924 quando “il nuovo Trentino” pubblica il titolo "La scoperta del cadavere dell’on. Matteotti"

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di Luigi Sardi

E’ martedì 19 agosto 1924 quando “il nuovo Trentino” pubblica il titolo La scoperta del cadavere dell’on. Matteotti. In vero, il corpo era stato trovato domenica, ma molti quotidiani come quello trentino, non erano nelle edicole di lunedì. La notizia è ricca di particolari.

Il principale, “Il merito della scoperta spetta al brigadiere dei carabinieri Ovidio Caratelli che in licenza, portava a spasso il suo cane. Già qualche giorno prima aveva trovato la giacca del deputato e continuando le ricerche nel sottobosco della Quartarella, il cane aveva cominciato a raspare ai piedi di una quercia. Caratelli che aveva una pala, cominciò a scavare” e qui la cronaca si dilunga su una serie di particolari macabri, molto probabilmente inventati, perché il corpo era già ridotto a scheletro e quindi ogni dettaglio, per esempio, sulla pugnalata, era inventato ma serviva ad appagare la curiosità dei lettori.

Il riconoscimento ufficiale dei resti avvenne nel cimitero di Riano; è certo che tre testimoni “congiunti dell’onorevole, si rivolgono ai magistrati inquirenti e con voce alterata dall’emozione dicono: è proprio lui, è proprio lui”.

Caratelli riceverà 25 mila lire, la somma che il Partito Socialista Unitario aveva messo a disposizione di chi avrebbe trovato il corpo dell’onorevole, cifra davvero notevole per quell’ epoca nella quale una copia di giornale costava 20 centesimi. Quasi subito diminuiscono drasticamente le vendite dei quotidiani perché la scoperta del cadavere attenua l’ansia conseguente all’incertezza, smorza la curiosità, quindi l’interesse attorno al delitto. Poi si è nel colmo delle ferie d’agosto, gli italiani scoprono le vacanze al mare e per chi resta in città e vive nei nuclei abitativi riservati agli operai, c’è un divertimento collettivo. Nei pomeriggi torridi ci si trovava lungo le scale comuni a mangiare l’anguria e giocare in massa alla tombola, divertimento collettivo accompagnato da un sistema di associazione tra numeri e significati, di solito umoristici, che raggiungevano il culmine quando l’improvvisato croupier alla lettura del numero 77 urlava le gambe delle donne. E subito echeggiava uno stoltiloquio.

Alcuni quotidiani tentano di riaccendere la curiosità sul delitto scrivendo, come fece “il nuovo Trentino” con il titolo Un dubbio terribile: a differenza del teschio, lo scheletro non sarebbe quello di Matteotti, insinuando il dubbio che fosse quello di una donna. Ma ormai le congetture, con la confessione degli autori e il ritrovamento del corpo, vengono accantonate. Dell’ omicidio si sa tutto, si conoscono i sacripanti in camicia nera, nelle chiese non ci sono preghiere perché Matteotti a differenza della moglie e della madre che erano cattoliche, si era dichiarato ateo e sull’Aventino non c’era spazio per una commemorazione laica. Però c’ è un altro momento che dovrebbe entrare nella storia: quello dei funerali che avvennero a Fratta Polesine. La moglie dell’onorevole non aveva voluto la presenza degli uomini del Governo e il funerale fu una manifestazione definita “solenne, austera, dignitosa, frutto di spontaneità commovente… ha partecipato tutto un popolo affratellato da un unico dolore.

Migliaia di lavoratori accorsero a Fratta e in un impeto di fede, si inginocchiavano e chiedevano: Perché è morto? Perché lo hanno assassinato? E ripetevano il grido: è il Martire della Libertà. Così lo ha pianto tutto il popolo del suo Polesine, così lo invocavano i forti lavoratori di questa terra ferace”. Ancora dal giornale trentino che intitola “Con voce più alta si chiede Luce e Giustizia”, articolo firmato avv. Umberto Merlin, Deputato al Parlamento che scrive: “La manifestazione di ieri sia a tutti esempio e monito. Guai se dell’orribile delitto non fosse fatta piena e completa giustizia! Guai se i colpevoli non venissero colpiti in modo esemplare e sollecito! Se gli autori di questo delitto, che non hanno avuto alcun senso di pietà, che hanno dimostrato di avere cuore tanto indurito per tacere per due lunghi mesi il luogo dove avevano dato così inumana sepoltura ai poveri resti mortali del Martire, trovino fuori dal carcere solidarietà palesi ed occulte, dirette od indirette e giustizia intera non fosse fatta: il senso di sdegno compresso ma profondo che freme nel cuore del popolo finirebbe con l’esplodere. Il popolo di Fratta Polesine nel nome di Giacomo Matteotti chiedeva giustizia e libertà. Dare soddisfazione a questo voto ardente di tutto un popolo laborioso e pacifico, è oggi il primo dovere verso la Patria”. E Giustizia e Libertà fu un movimento politico liberal-socialista fondato a Parigi nell'agosto del 1929 da un gruppo di esuli antifascisti. Ecco apparire Velia Mattotti che “forte di una forza italiana e romana, ha voluto accompagnare il marito fino alla sepoltura e quando la folla accennò a gridare tutto il suo strazio, comparve la Donna in gramaglie, una Donna [con la D maiuscola in segno di rispetto, nda] che in mano aveva la Corona del Rosario. Che impose a tutti il silenzio e per Lei che non aveva voce, parlò un compagno e domandò a tutti i presenti di non turbare la santità del luogo con grida di qualsiasi genere. Nei giorni del ritrovamento e della sepoltura, c’ è l’intervento di Mussolini: “Se c’è qualcuno in quest’ aula che abbia diritto più di tutti di essere addolorato e aggiungerei esasperato, sono io. Solo un mio nemico, che da lunghe notti avesse pensato a qualcosa di diabolico, poteva effettuare questo delitto che oggi ci percuote d’orrore e ci strappa grida di indignazione”. Però l’indignato ed esasperato aveva saputo una manciata di ore dopo il crimine, che a compiere quel sequestro divenuto omicidio erano stati i suoi più fidati giannizzeri e la sua accorata affermazione - e questo lo ha scritto De Felice - “risuonò in una Camera abbandonata dalle opposizioni”.

Si era al culmine della secessione dell’Aventino che richiamava alla memoria il ritiro su quel colle della plebe romana in lotta contro i patrizi. Nessuno se ne era accorto ma la scelta di lasciare Montecitorio aveva favorito Mussolini che poté affrontare la crisi senza doversi guardare da ogni intralcio parlamentare dal momento che Rocco, il presidente della Camera, aveva rinviato sine die i lavori parlamentari senza la protesta delle opposizioni. E quello per l’Italia tutta, per l’Europa, per il mondo intero, fa un imperdonabile errore. L’ Aventino poteva segnare una svolta che però si bloccò su quella che venne chiamata protesta morale. Fu, certamente, un volersi staccare anche visivamente, dalla maggioranza che, nonostante le affermazioni del Duce era in combutta con gli assassini, e fu un intralcio che sminuiva il fascismo. Scrisse De Felice: “Si potevano creare le condizioni per l’abbattimento del Governo fascista e l’eliminazione del fascismo; si dovevano coinvolgere anche le forze che fino a quel momento fiancheggiavano il fascismo”. Ma Vittorio Emanuele III non si mosse, la Chiesa non si schierò, i vecchi santoni della politica italiana non si sentirono. Se dalla Camera, in mano al fascismo, Mussolini non aveva nulla da temere, si doveva guardare dal clima di commozione che, giorno dopo giorno, giornale dopo giornale, si dilatava nel Paese fra gente che non era più disposta e temere la purga del sovversivo, il manganello, le revolverate, insomma tutte le tragiche corbellerie delle camicie nere. In agosto, dopo il ritrovamento del cadavere, sembrava che Mussolini avesse ripreso in mano il fascismo e che dovesse trionfare la sua speranza: restare al potere perché la situazione si sarebbe normalizzata per esaurimento delle opposizioni, per stanchezza dell’opinione pubblica, perché era tempo di ferie, di vacanze, quasi le prime dalla fine della guerra. E perché con il passare del tempo ogni delitto si sfarina fino quasi a sparire dalla memoria collettiva.

Nei primi giorni di agosto Mussolini sui suoi appunti attorno alla crisi Matteotti aveva scritto: “Il cadavere non si trova, la tensione aumenta, le accuse di affarismo dilagano”. L’opposizione, sempre più aggressiva e vivace, non dava requie al Governo e quelli dell’Aventino gli procuravano, soprattutto i cattolici, un crescendo di fastidi. Le conseguenze del delitto avevano messo in crisi molti ambienti soprattutto dell’industria che sino a quel momento erano stati vicini al fascismo, magari più per interessi di bottega che per ideologia. Insomma cresceva il timore di venire a trovarsi troppo compromessi se il Governo fosse caduto e in molti tendevano a mostrare un atteggiamento meno smaccatamente filo fascista. Si temeva di essersi esposti troppo sbandierando il consenso. Insomma, per dirla all’italiana, era meglio defilarsi in attesa dello svilupparsi degli eventi. Il Duce riprese il suo antico ruolo di tribuno qualche volta violento nel linguaggio, oppure più mite come quello tenuto nel viaggio in Toscana, una delle roccaforti del fascismo per riprendere il contatto con le masse e frenare quei toscani che furono i fascisti più turbolenti e violenti. Quando arrivò ad Abbadia San Salvatore sul Monte Amiata ordinò alla stampa, e non solo a quella dichiaratamente fascista di sottolineare il suo discoro e di esaltare quel luogo ricchissimo di acque termali e soffioni boraciferi, quelle emissioni violente di vapore acqueo ad alta pressione e temperatura che fuoriescono da spaccature del suolo dell’antichissimo vulcano, in quell’ epoca il più importante centro di estrazione del mercurio impiegato per i termometri, ma soprattutto nel campo degli esplosivi per i detonatori ed inneschi per cartucce.

Si trovò di fronte i minatori, i lavoratori di quelle miniere che scendevano a 500 metri nel cuore della montagna; discenderie oggi abbandonate, ma che un secolo fa facevano gola ad Hitler quando cominciava a preparare il suo esercito sterminatore. Mussolini si dimostrò callido dicendo ai fedelissimi: “Voi vedete che la battaglia è difficile e delicata e ci vuole una strategia assai fine. Bisogna cloroformizzare, permettetemi questo termine medico, le opposizioni e anche il popolo italiano… Si tratta di gente che ha avuto prima il neutralismo, poi la guerra, poi il 1919, il 1920 e il 21 gli anni del bolscevismo e delle Guardie Rosse, poi la rivoluzione nostra. Ma la gente dice: basta. Non bisogna ferire questa sensibilità psicologica delle popolazioni, perché diverso è muoversi in un ambiente simpatico, dove le popolazioni vi accolgono, vi sorridono, ed un altro è muoversi in un ambiente ostile. Allora la battaglia sarebbe molto più difficile”. E al Farinacci, sempre pronto a comparire e con la voglia di sostituirsi a Mussolini, invia un lungo telegramma nel quale lo invitava a tenere in quel di Firenze, dove il fascismo era il più agguerrito, Tragicamente nota La Disperata che fu guardia del corpo di Gabriele D'Annunzio nell’impresa di Fiume, poi la più importante squadra d’azione di Firenze e il nome che contraddistinguerà nei cieli dell’Abissinia la squadriglia da bombardamento della Regia Aeronautica al comando di Galazzo Ciano (da mettere nelle note), un discorso molto modesto “che deve sorprendere tutta l’Italia per la sua moderazione. Devi agitare non un ulivo, ma un’intera foresta di ulivi. Dopo le giornate del Monte Amiata, minacce o intimidazioni farebbero effetto del grido al lupo al lupo. Il tempo delle minacce è passato. Devi toccare anche la nota collaborazionista dicendo che il fascismo non respinge nessuno; il tuo discorso deve distendere lo spirito della popolazione perché la battaglia è ormai vinta su tutta la linea, l’iniziativa politica ci appartiene; possiamo tenere un linguaggio moderato perché siamo sicuri della nostra forza per l’avvenire”.

Inaspettato arrivò un delitto che certamente aiutò il fascismo. Era venerdì il 12 settembre quando a Roma verso le 10, e questo si legge su “il nuovo Trentino” di sabato 13, “il deputato fascista Armando Casalini viene assassinato da un comunista”. Titolo a tutta pagina, a caratteri di scatola di solito adoperati per la stampa di manifesti, di locandine o di titoli a piena pagina dei quotidiani. Quello del giornale di Trento ha nell’occhiello una sola riga che è il segno dei tempi: Nella tormenta infernale dell’odio di parte, ma è nell’ indicare come assassino un comunista, che tornerà a spingere gli italiani - anche quelli di sicura fede cattolica - nelle braccia di Mussolini. La notizia racconta un avvenimento che altrettanto tragicamente si ripeterà nell’epoca delle Brigate Rosse. “Il deputato fascista Armando Casalini vice segretario delle Corporazioni Sindacali Fasciste si trovava insieme con un la sua figliola Lidia, sul tram numero 23 presso Monte Mario dove egli abitava. Un individuo dall’aspetto di operaio è salito sul tram e senza proferir parola ha esploso tre colpi di rivoltella contro il deputato fascista, ferendolo con due colpi di cui uno all’occipite ed uno alla tempia. Il feritore ha cercato di dileguarsi e contro il fattorino del tram [un tempo viaggiava anche un impiegato, delegato alla vendita dei biglietti] ha esploso altri colpi di rivoltella andati a vuoto. Raggiunto da tre militari e da un milite della Milizia venne arrestato. Il deputato è stato trasportato all’ospedale di Santo Spirito ove è giunto in gravissime condizioni, senza conoscenza e dove è deceduto. Il feritore interrogato dalla pubblica sicurezza, ha dichiarato di chiamarsi Giovanni Corvi e di aver voluto vendicare l’assassinio di Matteotti di cui aveva in tasca la fotografia”. Ma questo particolare fu un’invenzione giornalistica, Corvi non era iscritto né al partito comunista né a quello socialista e in tasca aveva solo un documento di identità. Gli atti processuali sarebbero quasi inesistenti; neppure si sa se impugnava una Browning oppure una Beretta e i presunti complici, subito arrestati con grande clamore, vennero scarcerati quasi alla chetichella. Anche se risultò sano di mente, venne internato nel manicomio di Aversa.

Nel giugno del 1937 condannato al confino e trasferito a San Nicola di Tremiti; fu liberato per fine pena il 6 maggio 1941 ma rimase al confino. Lo presero o venne consegnato dopo l’8 Settembre del 1943 ai tedeschi. Quasi certamente morì in un Lager. Mussolini partecipò ai funerali del deputato e il 18 settembre il settimanale La Tribuna Illustrata mostrò con disegni molto aderenti alla realtà il momento del delitto e quella pagina riprodotta in manifesti, venne ampiamente diffusa perché quel comunista stampato in grande, subito si dimostrò di eccellente propaganda per il Governo fascista. Poi il Duce tenne il famoso discorso sul quale si imperniò la dittatura. “Vi assicuro che il clamore degli altri è molesto, ma perfettamente innocuo. Le opposizioni, tutte insieme, sono perfettamente impotenti. Il giorno in cui uscissero dalla vociferazione molesta per andare alle cose concrete, quel giorno noi di costoro faremmo lo strame per gli accampamenti delle Camicie Nere”. Frase che poi, in epoca successiva, divenne: “Farò di Montecitorio il bivacco delle mie Camicie Nere”. Insomma una variazione di linguaggio che non intacca la decisione di occupare Montecitorio e cancellare la libertà della politica, della stampa, delle idee. L’Italia era alla vigilia della dittatura. In questo clima si giunse all’apertura della Camera. Era il 12 novembre, i Comunisti avevano lasciato l’ Aventino e si ripresentarono in aula; il famoso Delcroix, il cui atteggiamento anti mussoliniano poteva avere severe ripercussioni fra i deputati che erano stati come lui combattenti e mutilati, si schierò con il Governo. Si diceva che era pronto a passare all’opposizione; invece si era schierato a fianco di Mussolini.

Dal canto loro le opposizioni sempre aggrappate all’Aventino, si erano limitate a sottoscrivere un breve documento per ribadire il loro punto di vista. Del tutto ininfluente. Verso la fine di dicembre con il delitto Matteotti che inesorabilmente svaniva dalle pagine deli giornali, Mussolini poteva sintetizzare la situazione e annotava: “Le masse ondeggianti del popolo si stanno riaccostando al fascismo; la nausea dello scandalismo era ormai all’estremo in tutta la nazione; le opposizioni non erano uscite dalle trincee dei loro giornali e dei loro ordini del giorno e ad esse come ho dimostrato, non si era fatto la minima concessione; la Corona, per quanto bersagliata in ogni modo e fatta oggetto di inaudite pressioni interne ed esterne, non dimostrava affatto di cedere alle insidiose suggestioni che l’avrebbero messa in contrasto con i due rami del Parlamento e soprattutto con il Senato; il Partito ha superato la crisi del revisionismo e aveva mantenuti intatti i suoi attributi di disciplina; la maggioranza parlamentare aveva collaudato la sua solidità fascista perché solo due o tre dozzine di deputati espulsi perché traditori, avevano abbandonato il campo”. Il capo del fascismo e del Governo che si apprestava a diventare il dittatore era stato confortato anche dal fallimento di uno sciopero proclamato a Roma dai muratori. Sempre dalle note del Capo del Governo: “I muratori avevano già abbandonato i cantieri [ma tutto] gelò non appena sfilò la legione Ferrucci arrivata da Firenze. Tutti capirono che non c’era di scherzare”.

E dopo aver accennato alla tesi di un governo di militari bocciata dal Governo, la frase: “Non credete che il fascismo sia vicino al tramonto. Sarebbe un errore colossale. E la storia si incaricherà di dimostrarvelo!” La crisi stava passando. Benito Mussolini dirà in parlamento nel discorso del 3 gennaio 1925: “Ebbene, io dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea ed al cospetto di tutto il popolo italiano che assumo, io solo! la responsabilità politica! morale! storica! di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello e non invece una superba passione della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il Fascismo è stato un’associazione a delinquere, a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato”. Da quel momento, il governo fascista, si trasformava definitivamente in regime. Il fascismo resisteva anche perché sostenuto dallo squadrismo, un fenomeno politico-sociale nato nel 1919 che consisteva nell'impiego di squadre paramilitari, formate soprattutto da reduci con l’ordine fronteggiare gli avversari politici e reprimere i dissidenti. Nel periodo della maggior crisi si era sfiorato un pronunciamento di generali del Regio Esercito i cui nomi erano scolpiti nei fatti più salienti della Grande Guerra: volevano il controllo della Milizia, ma Mussolini sottolineò “il diritto e la necessità di avere la Milizia ai miei ordini” facendo balenare l’ipotesi di uno scontro armato fra Esercito e le legioni nere: i fascisti in armi avevano molte simpatie nelle file delle forze armate e fra militi in camicia nera e soldati in grigio-verde, non si sapeva contro chi avrebbero aperto il fuoco.

Da tempo sappiamo, come ha scritto De Felice che “la sorpresa e l'efferatezza con cui avvenne il delitto, fece sì che fin dai primi giorni l'opinione pubblica antifascista identificasse in Giacomo Matteotti uno dei suoi Martiri. A dare un forte contributo alla mitizzazione del deputato socialista fu lo stralcio della confessione di Albino Volpi, esecutore materiali dell'assassinio, pubblicato sul quotidiano l'Unità, il giornale Partito Comunista d’Italia fondato il 12 febbraio 1924 da Antonio Gramsci. Il contegno di Matteotti è stato assolutamente spavaldo mentre lo pugnalavamo; direi eroico. Ha continuato fino alla fine a gridarci in faccia assassini, barbari, vigliacchi! Mai ebbe un momento di debolezza per invocare pietà. E mentre noi continuavamo nella nostra azione egli ci ripeteva: Uccidete me ma l'idea che è in me non la ucciderete mai. [...] Fino alla fine, fin che ha avuto un filo di voce ha gridato: La mia idea non muore! I miei bambini si glorieranno del loro padre! I lavoratori benediranno il mio cadavere! E' morto gridando: Viva il socialismo!” Forse la confessione del Volpi venne manipolata da l’Unità del 15 giugno 1924 anche se venne ripresa da La Stampa e il primo giugno del 1924 ripresa da La Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti che in un numero intero mise in luce il suo antifascismo intransigente. Di certo l’insegnamento di Matteotti rispecchia il contenuto di quelle frasi. Invece è certo che il Governo fascista si oppose al clima di celebrazione che stava crescendo facendo presidiare dalla Milizia il luogo in cui era stato compiuto il rapimento. Disse il Duce: “Io avevo un dovere solo: Quello di fare in modo che il 10 giugno 1925 fosse l'opposto del 10 giugno del 1924. infatti oggi siamo riusciti a dimostrare che la nazione è smatteottizzata e considera cialtroni tutti gli aventiniani. Possiamo oggi dire alto e forte che se l'Italia non assiste alla malvagia speculazione di quel morto, speculazione che serviva a far vendere carta stampata e ad oltraggiare il nostro paese all'estero lo si deve al Fascismo”. Resterà nella memoria quell’ “uccidete me, ma la fede che è in me non la ucciderete mai” frase che un giuramento identico a quell’ “Ora e sempre Resistenza” che Pietro Calamandrei fissò perpetualmente nella epigrafe dedicata ad Albert Kesselring, comandante delle armate naziste in Italia fra l’8 Settembre del 1943 e il 25 Aprile del 1945. Il generale chiedeva agli italiani di ringraziarlo e dedicargli un monumento per aver protetto alcune città d’arte mentre si trovava in Italia. Non ebbe il richiesto monumento, ma quell’epitaffio che è il grido della libertà.

Il generale germanico voleva un monumento. Oggi gli italiani dalla memoria corta vogliono un francobollo per un fascistone: Italo Foschi federale di Trento fino all’ 8 Settembre del 1943. E un altro francobollo è dedicato a Giovanni Gentile, ministro all'Istruzione nell’era fascista che nel 1923 aveva vietato l’insegnamento della lingua tedesca nelle scuole sudtirolesi. Certo, Foschi nel 1927 realizzò il sogno della Capitale fondando l'Associazione Sportiva Roma. Nel Ventisette era già un fascista di spicco e l’organizzatore dello squadrismo a Roma, il caporione che aveva platealmente lodato l'omicidio Matteotti dicendo ad Amerigo Dumini: “Sei un eroe, degno di tutta la nostra ammirazione”. Poco dopo aver esaltato il capo della squadra fascista che sequestrò e uccise il deputato socialista, venne a Trento con la nomea di aver compiuto atti di estrema violenza verso gli oppositori politici. Quasi subito denunciò alla magistratura due sacerdoti: don Giuseppe Lona insegnante di latino e greco all’ Arcivescovile di Trento e Modesto Lunelli, parroco a Ziano il Val di Fiemme con l’accusa di aver firmato un bollettino parrocchiale con contenuti non graditi al fascismo e poi con quella di maldicenze nei confronti del fascio fece arrestare sette persone. Avvenne a Cles e basterebbero questi episodi per cancellare il suo volto dal francobollo commemorativo. Nel bellunese collaborò alla schedatura degli ebrei e chissà: questo particolare sfuggì all’attenzione di quanti stamparono - per fortuna non con la divisa di gerarca - il citato francobollo. Fu il federale di Trento dal 1939 all’ 8 Settembre del 1943 quando il territorio da Borghetto al Brennero divenne terra di occupazione nazista e lui, dopo un pranzo al ristorante Pavone che si apriva in via Oss Mazzurana, venne allontanato dalla città dai camerati tedeschi che non volevano caporioni italiani tra i piedi.

Restò un fedelissimo di Mussolini anche nel tempo della Repubblica di Salò. Adesso sorprende amaramente l’idea di dedicargli un francobollo perché fu il fondatore della squadra di calcio sia pure di prestigio. Così mentre in Italia si ricorda di Matteotti, la Consulta filatelica nel nome del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, ha preso questa decisione. Possibile che quanti pensarono al volto di Foschi su un francobollo, non sapessero che fu militante assurto a simbolo del fascismo, addirittura espulso per troppo zelo o perché faceva ombra a qualcuno, ma poi ripreso nel partito? Lo rispettò la Chiesa, certamente l’arcivescovo Carlo De Ferrari che a fianco di Foschi fa il saluto romano. Scorrendo i giornali del 1940 si vede una fotografia con una didascalia: Trento saluta con devozione filiale il Successore di S. Vigilio. Così recitano i manifesti affissi sul fianco sud della chiesa di San Pietro - quella che custodiva le reliquie del beato Simonino martorizzato dai perfidi ebrei - in occasione della visita di Carlo De Ferrari. Quella prima visita appare come segno di rispetto per le leggi razziali volute dallo smargiasso Mussolini. De Ferrari aveva preso il posto come nuovo arcivescovo di Trento. II suo predecessore Celestino Endrici era stato molto tiepido con i fascisti, contrario alla propaganda nazista in Alto Adige mirante, così si espresse nella lettera pastorale il 21 gennaio 1934, “a costituire la razza pura attraverso procedimenti aberranti, insulto alla dignità umana, quale la sterilizzazione dei più deboli”.

Propaganda subdola, dalla quale Endrici inviterà tutti a difendersi scrivendo il 29 aprile 1938, al cardinale Eugenio Pacelli, il futuro Pio XII, invitandolo ad una resistenza religiosa. E Pacelli gli rispose indicandolo come “sacerdote autorevole dell’Alto Adige capace di animare i curatori d’anime a fondare delle cellule antinaziste”. C’è anche la vicenda delle Opzioni cui vennero costretti i sudtirolesi dall’ accordo di Berlino fra Hitler e Mussolini, definite dal Presule, “un progetto di deportazione contro il diritto di restare nella terra degli avi”, con l’ulteriore sofferenza provocata dall’atteggiamento del vescovo di Bressanone Johannes Geisler favorevole alla Germania e in contrasto con parte gran parte del suo clero. Nel libro I giorni della Portèla e di San Martino, dove si raccontano gli anni bui di Trento in guerra, si racconta che martedì 25 novembre 1941 il Principe Vescovo Carlo de Ferrari fece quella apparizione entrata nella storia di Trento: la benedizione della Prima Pietra della erigenda chiesa di Cristo Re. Le bande, i cori, alternavano Giovinezza a Veni Creator; è senza fine è l’elenco delle autorità presenti là dove oggi sorge il tempio.

La guerra va bene, il popolo è sereno, i fascisti in orbace esultano. In prima fila c’è Foschi. Carlo de Ferrari in piviale, mitria e pastorale apre il corteo dei religiosi che avanza lento, solenne, scortato dai CC.RR e dai fascisti nelle impeccabili uniformi. Il Presule prende la parola, allarga le braccia verso gli spazi sui quali sta sorgendo il rione popolare e la velenosissima Sloi con i resti della quale, dal 1939, Trento fa ancora i conti. In quella cerimonia il devoto arcivescovo impartì la benedizione al manganello, chiamato santo. “Bene fecisti Domine, col Santo Manganello”. Quel latino fecisti, seconda persona del verbo indicativo perfetto, uscì dalla tastiera del linotipista come facisti e il correttore di bozze lo tramutò in fascisti. L’articolo, prima della stampa venne letto del capo servizio addetto all’ impaginazione che si accorse che quel sostantivo era al plurale perché il Domine - cioè l’Italo Foschi - era uno solo e così l’articolo riportò un trionfante e corretto: “Bene fascista Domine, col Santo Manganello”. E questo episodio venne raccontato nel marzo del 1959 da Mario Paoli di Pergine, giornalista che era stato direttore de Il Trentino. Metamorfosi di un giornale. Il Brennero che aveva come sottotitolo un vistoso Quotidiano Fascista, con la caduta del Duce diventa, fino al 13 settembre del Quarantatre, Il Brennero Quotidiano Tridentino ma il 16 settembre con l’arrivo dei tedeschi diventa Il Trentino Quotidiano dal Partito Fascista Repubblicano. [da mettere a piede di pagina] Intanto il passo del Brennero era diventato territorio germanico; Benito Mussolini si era dovuto consolare a Salò dove le SS lo avevano portato. Per difenderlo, soprattutto per sorvegliarlo. Se la figura di Foschi ci consegna l’immagine di uno vero fascista, quella di Giovanni Gentile è diametralmente opposta. Fu un intellettuale certamente grande, ma che ebbe un ruolo di primo piano nel tentativo di cancellare la minoranza tedesca.

Gentile è stato un filosofo, uno storico della filosofia, pedagogista e politico. Con Benedetto Croce fu uno dei maggiori esponenti del neoidealismo filosofico e fra l’autunno del 1922 e il giugno del 1924 ministro della Pubblica Istruzione. Però è stato l’uomo che ha firmato il decreto che ha vietato l’uso della lingua tedesca nel Sud Tirolo, decisione davvero incredibile per un personaggio di indiscutibile e profonda cultura. Si domanda l’assessore alla cultura e alla scuola tedesca Phillipp Achammer ma la storia non ha insegnato nulla? C’ è una certezza: no. Nel Sud Tirolo, dalla Domenica di Sangue in poi si è fatto molto per sradicare la Heimat. In quella terra dove si è sempre parlato tedesco, il fascismo impose la fascistizzazione, non - si badi bene - l’italianizzazione, costringendo molti bambini privati della loro lingua a cercare di apprenderla nelle scuole dette delle catacombe. Una vergogna per l’Italia, ma non in quelli che ebbero lo spirito del Risorgimento. Si legge nella homepage del quotidiano l’ Adige: “Siamo assolutamente contrari e siamo anche arrabbiati" ha dichiarato il presidente della giunta provinciale di Bolzano, Arno Kompatscher, parlando del francobollo commemorativo di Gentile emesso dalle Poste Italiane nell'80°anniversario della scomparsa del filosofo idealista e appunto ministro della pubblica istruzione e ha aggiunto: “È un Paese strano questo, nel quale si dedicano francobolli a soggetti che erano strettamente coinvolti con l'attività di un governo fascista che sappiamo quali danni ha fatto. La protesta è ampiamente condivisibile”. Senza entrare nel merito del personaggio, basterebbe dire “che è stato ministro di quel governo che ha firmato i decreti che hanno vietato l'uso di una lingua sul territorio, il che è uno strumento di oppressione proprio di una dittatura". Fascismo e antifascismo. Nel pomeriggio del 26 luglio del 1943 Toni Maestri, attore e padre di Cesare, il Ragno delle Dolomiti, con un imbianchino - il giornalista dell’Alto Adige Gian Pacher ricordava che si chiamava Tomasi - si diedero da fare per cambiare il nome di una strada e di una piazza di Trento. Munito di una scala, vernice e pennello, Maestri aveva sostituito la targa della Piazza del Littorio in Piazza Matteotti e quella di Via Italo Balbo in quella di Via Don Minzoni. La decisione di cambiare i nomi del regime era stata presa da Egidio Bacchi; nella sua tipografia Temi venne stampato un manifesto a firma Giustizia e Libertà nel quale si accusava la monarchia di aver favorito il fascismo.

In quei giorni Ernesta Bittanti inviò un memoriale a Pietro Badoglio che dopo il 25 Luglio del 1943 aveva preso il posto del Duce. Chiedeva “di allontanare il fascistissimo prefetto Italo Foschi e di non deludere il popolo italiano arrivato a respirare una boccata d’ aria che aveva il sapore della libertà”. Donna Ernesta non venne ascoltata e fu costretta a fuggire in Svizzera.

(8. Fine)

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