Ricordi (personali) di un Degasperi poco noto
Dalla penombra della guerra perduta gli italiani videro emergere Alcide Degasperi, “personaggio inconsueto e che proprio per questo più rassicurante dei santoni prefascisti e dei tonitruanti tribuni. Paziente, calmo, refrattario alla retorica, fervente cristiano, era abituato alle strettezze di un bilancio familiare quasi da fame sopportato negli anni della Grande Guerra, poi nell’era fascista che lo aveva relegato in galera per ordine di Mussolini divenuto il Duce. Prudente nel bilancio famigliare come in quello dello Stato, ligio al decoro e ai principi di moralità oggi di sovente ignorati, condusse quasi per mano gli italiani fuori dagli orrori del secondo conflitto”.
Questo lo scrisse magistralmente nel 1998 Indro Montanelli il giornalista che fu testimone di quell’epoca e dei personaggi che tornavano ad occupare il palcoscenico della politica nell’Italia rinascente dalle macerie del disastro militare. Una figura limpida e forte che si staglia nella realtà e non solo in quella italiana. Un personaggio che non è stato dimenticato. Correva l’anno 1946; città, ferrovie, ponti, porti, scuole, ospedali, stabilimenti erano cumuli di macerie; locomotive, vagoni, navi erano rottami e quelli ferroviari raccattati a nord del Po, erano stati trainati attorno alla stazione Porta Nuova di Verona, divenuto una sorta di grande cimitero di quella che fu, appunto la locomotiva, una icona del Futurismo. I prigionieri di guerra cominciavano a tornare. Dai Lager della Germania vinta e distrutta, dall’India, dal Canada, dagli Stati Uniti, dai territori d’oltre mare della Francia, ma non dall’Unione Sovietica.
Il governo di Stalin che aveva avuto un numero enorme di giovani uomini morti in battaglia, aveva ordinato ai “cовет народных комиссаров”, i “commissari del popolo sovietico”, di pescare fra i prigionieri, soprattutto quelli che avevano saputo dire che erano stati antifascisti da sempre e che Giuseppe Garibaldi era stato il comandante delle Camicie Rosse e innalzava una bandiera rossa anche quella, per indurli a lavorare nelle fabbriche di trattori, che continuavano a produrre soprattutto carri armati e, magari, sposare le donne russe rimaste vedove. La fame incombeva, il cibo era razionato e distribuito con la tessera annonaria, il traffico era inesistente e di tanto in tanto compariva un’automobile o qualche autocarro mosso da un ingombrante apparato detto gasogeno, una sorta di fornello esterno che bruciava legna; la combustione creava un gas in grado di alimentare un motore a combustione interna, come quello di un automezzo. Il fascismo aveva visto nell’uso del gasogeno la soluzione ideale per rendere indipendente un Paese senza risorse fossili come l’Italia. Alla mancanza di petrolio si poteva sopperire con l’abbondanza di alberi e foreste. Anche quella trovata autarchica fu un fallimento e i tedeschi, in ritirata verso il Brennero, avevano requisito tutti gli automezzi in grado di muoversi.
Ogni anno, il 19 agosto, si ricorda Alcide Degasperi morto a Sella in Valsugana, luogo di grande bellezza sopra gli abitati di Borgo e Olle. Nell’agosto del 2024 un vescovo - Ivan Maffeis - e una giornalista - Agnese Pini hanno consegnato stralci della vita dello statista del Tesino e dell’epoca della Resistenza che fra il 1943 e il 1945, vide molti italiani prendere le armi per affrontare il nazifascismo. Ecco, Degasperi fu testimone della Prima Guerra Mondiale, della nascita del fascismo che fu sul punto di crollare per lo sdegno del rapimento e dell’assassinio del leader del socialismo Giacomo Matteotti, dell’avvento del nazismo, della guerra all’ Etiopia - l’Abissinia nel gergo fascista - del massacro della guerra civile in Spagna, l’orrore della bomba atomica che sempre incombe. Non era un uomo dall’ideologia ma degli ideali che proveniva da una terra, appunto il Trentino, all’alba del Novecento devota alla Chiesa, fedele all’Imperatore Francesco Giuseppe, ricca di pellagra e di sempre faticoso lavoro. Leo Valiani, comunista fin quando si staccò dal il Pcd'I quel 23 agosto del 1939 - la data del patto Molotov-Ribbentrop - politico, giornalista e storico, scrisse che “era un uomo dotato di senso dello Stato”. Lo fu come deputato al Parlamento di Vienna fino all’ottobre del 1918, poi a Roma nel Partito Popolare Italiano fondato il 18 gennaio 1919 da Don Luigi Sturzo. E subito dopo il maggio del 1945 quando cominciò la rinascita sotto lo scudo della Democrazia Cristiana.
La narrazione più recente di Degasperi da Pieve Tesino è di un trentino, Ivan Maffeis nato a Pinzolo, arcivescovo dal 2022 a Perugia. Nella “lectio” nell’anniversario della morte dello statista, questo sacerdote dalla voce sicura e pacata ha detto: “Vanno risvegliate le coscienze alla dedizione a una causa epocale, a una terra promessa, a una patria europea” paragonando Degasperi ad un profeta “perché ha indicato una strada ed un metodo politico e ha accettato di mettersi alla guida del suo popolo. Ha condiviso i valori di fondo della Resistenza, è stato protagonista della transizione democratica dal Regno alla Repubblica, ha contribuito a dare al Paese una solida Costituzione, ha collocato l’Italia nei paesi occidentali”. Ha salvato gli italiani dalla fame e dal farsi assorbire dall’ Unione Sovietica con l’Armata Rossa accampata a Salisburgo e le milizie di Tito in vista dell’Isonzo. Aggiunge Ivan Maffeis: “Mosè portò fuori il suo popolo dall’ Egitto; Degasperi guidò lo Stato dalla sconfitta ad un ruolo fra le potenze vincitrici” sul nazismo, il fascismo di casa nostra e quello imperiale del Giappone. Altri tempi, altri personaggi, altri valori. Appena sorta la Repubblica e mostrato lo stemma - una stella a cinque raggi accollata agli assi di una ruota di acciaio dentata - si intonò il canto che fu, quasi, un inno: “Sorge il sole, canta il gallo, cittadin monta a cavallo, ci consola con suo raggio lo stellon nell’ingranaggio. Corri e grida ai quattro venti, lo stellon ha messo i denti”. Intanto un numero crescente di italiani, oltre a questo ritornello, tornò a cantare, seguendo la figura di Giorgio Almirante, “Giovinezza” che fu l’inno fascista mentre rimbombava “Bandiera Rossa” il canto del popolo di Palmiro Togliatti e si diseppellivano i corpi degli italiani della Venezia Giulia gettati nelle foibe dalle truppe di Tito. E il mondo era sull’orlo della terza guerra mondiale, adesso pericolosamente strisciante: dalla Russia all’ Ucraina, da Israele alla Palestina, dalla Corea del Nord all’isola di Formosa.
Ma ecco la giornalista Agnese Pini richiamare un grido della storia d’Italia nel libro “Un autunno d’agosto”, la strage nazista commessa tra il 17 e il 19 agosto 1944 a San Terenzo Monti, frazione del comune di Fivizzano in provincia di Massa Carrara, il massacro di 159 civili compiuto da soldati divenuti assassini della Panzergrenadier Division Reichsführer - SS comandati dal maggiore Walter Reder lo spietato assassino liberato dalle carceri italiane il 24 gennaio 1985 e trasferito in Austria. All’aeroporto fu accolto dall’allora ministro della Difesa austriaco Friedhelm Frischenschlage, che gli strinse la mano. Un gesto che scatenò una crisi all’interno del Governo austriaco dell’ epoca. Leggendo “un autunno d’agosto” mi sono fermato a “tanzen” perché quel “wir tanzen” lo ricordo benissimo quando ci si precipitava nel rifugio scavato nella roccia alla Busa, in cima ma via Grazioli con i tedeschi all’ingresso a fermare le giovani donne. Che dovevano danzare. A Roncegno nella magnifica sala delle Terme, la citata giornalista ha presantato il suo libro di fronte ad oltre duecento persone. Pochissimi di loro, per via della data di nascita, avevano visto la guerra e per oltre un’ora nella sala si sentirono solo tre colpi di tosse. L’attenzione era totale e, probabilmente tesa a quei figuri a quei figuri attuali, che da una comoda scrivania, circondati da obbedienti servitori, decretano la morte di uomini, donne, bambini. Se uno di loro s’avvede di perdere la faccia, può perdere la testa, schiacciare quel terribile bottone che in un’istante riporterà i superstiti all’età della pietra. Ma ecco un’altra immagine. A Rovereto, nella meraviglia del Mart, da un’idea di Vittorio Sgarbi e dalla bravura di Beatrice Avanzi e Daniela Ferrari che l’hanno allestita con maestria, ecco la mostra Arte e Fascismo. Fra le molte e tutte straordinari immagini, spiccano quelle Mario Siron, il creatore delle vignette publicate da “Il Popolo d’Italia”, il giornale che aveva nel sottotitolo “fondato da Benito Mussolini”. Ecco quella che raffigura “Il nuovo governo che si presenta alla Camera”. I deputati sono puntini sui loro scranni dominati da un gigantesco fascio littorio.
C’è quella del 12 luglio 1924 - siamo già nel pieno della tragedia di Matteotti - dove l’opposizione è rappresentata da uno scorpione e poi con la didascalia “Il castello del baro crolla” con il nome di Matteotti a sostenere la sgangherata costruzione, tipo un castello di carte da gioco, sul quale poggia la scritta Aventino. Ecco alcune ombre che s’affollano su quel colle di Roma dove la Nazione avrebbe potuto riscrivere la sua storia. C’è anche lo scudo crociato con la scritta Libertas, simbolo dei Popolari. Sarà dopo il 1945 lo scudo della Democrazia Cristiana sollevato da Degasperi, nel quale si ficca, però senza schiantarlo, il rosso falcetto del Partito comunista di Togliatti. E c’è raffigurato Degasperi che indossa l’abito talare, quello nero dei preti e il viso è disegnato come la testa di un corvo, immagine chi comparirà ben oltre le elezioni del 18 aprile del 1948 soprattutto su Candido, il settimanale di politica infuocata diretto da Giovannino Guareschi.
(1. continua)