Ricordi (personali) di un Degasperi poco noto/3
Siamo, forse e purtroppo, nella terza guerra mondiale per ora, e solo per ora, strisciante nonostante i molti stoltiloqui che aumentando a dismisura le spese in armamenti, parlano in maniera eristica di pace. Senza renderci conto che se qualcuno sul punto di perdere la faccia perde la testa e schiaccia quel tragico bottone scaraventerà i superstiti all’età della pietra. E il clima di incertezza, ansia, paura sembra, quasi, alimentare quella violenza omicida che sta dilagando in un crescendo di efferati delitti senza un perché, ma con un enorme dolore.
Così tornano di attualità gli articoli scritti nell’estate del 1914, quella dei Cannoni d’Agosto, da Alcide Degasperi che prendono spunto dal famoso proclama dell’Imperatore d’Austria, quello intitolato “Ai Miei Popoli”.
“Per sei decenni e mezzo divisi con i Miei popoli gioie e dolori, sempre memore, anche nelle ore più gravi, dei Miei austeri doveri e della Mia responsabilità per la sorte di milioni di sudditi dei quali devo rendere conto all’Onnipotente”. La frase è solenne, la firma è “Francesco Giuseppe”, l’amato Imperatore che l’ha dettata a Schönbrunn per quei milioni di sudditi che adesso la leggono sui manifesti affissi il 6 luglio del 1914 nelle molte lingue parlate dal Trentino ai confini con la Russia, intuendo la gravità del momento.
Solo pochi giorni prima a Sarajevo erano stati assassinati l’erede al trono austro-ungarico Francesco Ferdinando e sua moglie. Un delitto organizzato dal nazionalismo serbo, il prologo di quella tragedia che sarà per sempre chiamata Grande Guerra.
Nella redazione del giornale “Il Trentino”, Alcide Degasperi legge e rilegge quel manifesto e ha un’intuizione: in quelle parole vede la concezione cristiana del dovere alla quale, forse in quel momento, decide di votarsi. Come la stragrande maggioranza dei trentini è devoto alla Chiesa ed è, per convinzione e tradizione, fedele al vecchio Imperatore Francesco Giuseppe. E’ un triplicista convinto perché vede nell’alleanza fra Berlino, Vienna e Roma una garanzia di pace in una Europa sempre inquieta. La Triplice non è solo un accordo diplomatico e politico, ma è anche una precisa convenzione militare, una strategia di militari, lievitata nelle caserme fra uomini gallonati che sognano conquiste territoriali senza tener conto degli uomini.
Degasperi era appena tornato dalla Dieta di Innsbruck dove i deputati popolari avevano chiesto l’istituzione di un fondo per ampliare i caseifici, creare a Trento l’istituto di maternità, sovvenzionare la costruzione di scuole pubbliche, tracciare nuove strade e nuovi acquedotti, introdurre come obbligo il riposo domenicale. E’ un altro segno di un benessere che comincia a diffondersi anche nel Trentino, terra ricca di pellagra, di emigrazione, di lavoro forsennato attorno ai bachi da seta, ma terra di serenità sulla quale all’improvviso, si allunga l’ombra del delitto di Sarajevo.
Degasperi vede nelle revolverate di Gravilo Princip l’ennesima tragedia che colpiva l’antico imperatore e le elenca a cominciare da quanto accaduto nell’autunno del 1848, il famoso Quarantotto, l’anno della rivoluzione quando il conte Theodor Baillet de Latour, Imperial e Regio generale d’armata e ministro della guerra che catturato da un gruppo di operai davanti al suo ministero, venne bastonato e impiccato ad un lampione mentre i rivoluzionari combattevano persino nel duomo di Santo Stefano sul quale il 19 novembre tornò a sventolare la bandiera giallo-nera a segnare che la rivolta era stata infranta.
Ci furono le sconfitte di Magenta, Palestro, Solferino; nel 1866 Sadowa e la cessione del Veneto al Regno d’Italia, la fucilazione in Messico di suo fratello Massimiliano, il suicidio del figlio Rodolfo, l’assassinio dell’imperatrice Elisabetta, la famosa Sissi uccisa a Ginevra il 10 settembre 1898 per mano, anzi per lima, dell’anarchico italiano Luigi Lucheni. Degasperi ricordava che ogni anno l’Imperatore partecipava alla processione del Corpus Domini seguendo il Santissimo a capo scoperto e con una candela in mano segno dell’antico patto fra trono e altare e che adesso, di fronte alla nuova tragedia, “si è levato il vegliardo quasi secolare ed ha detto, né ribelle né disperato, la parola giusta, la parola grande della verità: Il nuovo affanno è dovuto alla volontà imperscrutabile di Dio verso di Me verso i Miei”.
L’Impero appariva ancora come un regno patriarcale. Campi di segala, di grano, di patate, pascoli, foreste e villaggi e fattorie, castelli e abbazie. La più venerata monarchia in un’Europa che stava cambiando nei ritmi del nuovo secolo e lui, Francesco Giuseppe che regnò per 68 anni, sembrava creato apposta per incarnare un’epoca compresa fra la restaurazione e i fermenti del primo Novecento, monarca di stile feudale, imperatore sopranazionale nei vortici del nazionalismo, delle aspirazioni repubblicane, del primo socialismo. Il nazionalismo appunto. Il monarca assoluto non si era accorto che i cechi, che parlavano, scrivevano, studiavano in tedesco, scoprivano la loro lingua e con essa la loro storia, la loro cultura e quella crescente voglia di indipendenza e i patrioti cechi cominciavano a chiedere i diritti civili e a pretendere l’unione della Boemia e della Moravia sotto la corona di Vencislao in odore, per i credenti, di santità. Non aveva neppure capito i suoi sudditi di lingua italiana che chiedevano una Università italiana e una maggiore indipendenza, meglio dire autonomia, da Vienna e da Innsbruck. Invece, lui che era un uomo d’ordine, aveva capito l’Italia era luogo dei disordini, delle sommosse, delle voglie repubblicana uguali da Milano alla Sicilia ed era solito dire: “In Italia c’è sempre una grande confusione e non si sa mai cosa potrà nascere”.
Ma dopo Sarajevo si respirava un’aria difficile e nell’articolo di Degasperi si legge il pensiero dell’Imperatore: “Chino il capo innanzi al mistero di questa Provvidenza; la nuova prova non mi scoraggia ma mi eccita a persistere fino all’ultimo respiro sulla via riconosciuta giusta per il bene dei Miei popoli”. Il giornalista condivide il pensiero dell’Imperatore e aggiunge: “Ecco la concezione cristiana del dovere, della vita. Noi dobbiamo essere grati all’Imperatore per questo insegnamento e per questo esempio”.
Ripercorrendo le tragedie che avevano colpito quell’uomo, Degasperi aveva scritto: “E se lo vedessimo affranto e schiacciato dall’immensità del dolore, il nostro sentimento sarebbe di pietà, e se vedessimo levarsi la su testa canuta con un gesto di ribellione contro il tremendo destino dovremmo dir tutti: Vi comprendiamo”. E poi il dubbio: “Si perderà questa voce come altre nel frastuono della politica quotidiana?” Meno di trenta giorni e dalle melodie rapinose e inebrianti dei valzer si passerà alle note d’assalto della Marcia di Radetzky, sulle quali i soldati d’Austria e Ungheria tentarono di arginare a sud l’Esercito italiano e sul fronte dell’Est le armate russe. Meno di trenta giorni e quella voce che ha il sapore della preghiera si perderà nel fragore di cannoni d’agosto destinato a segnare la fine dell’Impero.
Quel luglio del Quattordici era stato, almeno nel Trentino, particolarmente caldo. La fienagione e la raccolta dell’uva promettevano bene e nel tardo pomeriggio quando i raggi del sole diventavano meno brucianti, molti abitanti di Trento si accalcavano lungo le rive della Fersina, sotto le molte file degli ippocastani, per godere la leggera, fresca brezza che, scendendo dalla Valle dei Mocheni, sembrava correre lungo le acque del torrente. Le donne si riparavano con graziosi ombrellini, gli uomini sfoggiavano chiari cappelli di paglia. C’era il gelataio con il suo carretto ricco di sorbetti al profumo di limone, menta e vaniglia e un mastro birraio aiutato da due garzoni vendeva in grossi boccali di vetro, birra fresca, leggermente amara e ricca di schiuma. Qualche volta in Piazza Dante, all’ora del tramonto, la banda del reggimento di stanza in città si esibiva in concerti. Musiche di Johann Strauss, l’inno dell’Impero, ma anche la Marcia Reale in omaggio all’alleata Italia con gli ufficiali sull’attenti, a salutare militarmente.
Solo nelle caserme i soldati trentini canticchiavano, nonostante la proibizione, la canzoncina che, dopo la terza guerra italiana per l’indipendenza, quella del famoso “obbedisco” di Garibaldi, prendeva in giro Vittorio Emanuele II: “Con la barba de Vittorio - noi farem tanti bruschini - per nètarghe i stivalini - al Francesco Imperator”.
Di colpo gli spari di Gavrilo Princip lungo via Appelkai avevano gettato anche il Trentino nell’ansia. Anche la vita politica era diventata, dopo la tragedia di Sarajevo, particolarmente calda. Dietro le due bare s’accalcavano le passioni umane, i dubbi, le paure. I giornali austriaci ma non quelli stampati nel Trentino, predicavano la guerra alla scismatica Serbia e a Vienna le autorità civili e militari si palleggiavano le responsabilità. I ministri accusavano di leggerezza i militari che non avevano saputo proteggere l’erede al trono e i generali bollavano gli uomini della politica accusandoli di non aver capito cosa stava per accadere nel cuore dei Balcani. Insomma per gli uomini in uniforme, quelli della politica non erano riusciti ad evitare il rafforzarsi degli ambienti nazionalisti serbi dove era stato deciso l’omicidio. In particolare, Leo von Bilinski, il ministro che governava le due province occupate della Bosnia-Erzegovina, veniva aspramente attaccato per non aver esercitato il controllo del territorio e la repressione delle manifestazioni di insofferenza mentre i militari venivano accusati di non aver fatto scudo all’auto dell’erede al trono.
Degasperi non è d’accordo con queste critiche. Scrive ed è l’unico a farlo in quell’Europa sul piede di guerra, che le insurrezioni non sono la conseguenza dell’ampliamento “delle libertà civili né del principio democratico costituzionale creano ed alimentano il sovversivismo, ma l’educazione senza morale che lo stato moderno impartisce o lascia impartire ai suoi cittadini”. Con chiarezza riafferma la necessità di concedere la libertà di riunione, di parola, di stampa e con amarezza aggiunge: “In questi ultimi anni si bada più all’ordine esteriore – ordine di cimitero – che all’ordine morale” e difende Bilinski accusato di aver preso troppo sul serio i deputati serbi, di essere stato troppo debole e transigente con la popolazione. “Questo sistema, concludono i giornali, ha creato e allevato l’irredentismo rivoluzionario. In poche parole la causa ultima dell’attentato sarebbero le libertà costituzionali”.
(3. Continua)