Sono troppe le vittime di armi italiane
Sono troppe le vittime di armi italiane
Nei giorni scorsi, tra sdegno e commozione, è stato dato l’addio alle vittime italiane della strage di Dacca.
Di fronte ai nostri connazionali morti in Bangladesh, si è fatta forte la consapevolezza che anche il nostro Paese non è immune agli attacchi del terrorismo islamico.
Nonostante gli sforzi militari contro l’Isis, il Califfato continua a esercitare la sua potenza sui territori occupati, e soprattutto mantiene inalterati il potere di reclutamento e la capacità di proselitismo su ampie frange di potenziali kamikaze e attentatori pronti a colpire al grido di «Allah Akbar», Allah è grande.
La rabbia e la volontà di reagire dell’Occidente - Italia in primo luogo - scontano però un’ipocrisia di fondo.
La forza dell’Isis e dei terroristi non è soltanto il fanatismo religioso e l’ideologia integralista che li sorregge. Dietro il califfato ruota un intero sistema di soldi, traffici illeciti e commercio di armi, che hanno proprio l’Europa e l’Occidente come interlocutore indiretto. Non c’è solo la vendita illegale di petrolio e di reperti archeologici, o il disumano traffico di esseri umani o di organi.
C’è la compravendita di armi e munizioni, che prosegue fiorente, e che ha proprio l’Europa - e l’Italia in particolare - come primi protagonisti.
Non possiamo da una parte indignarci di fronte alle vittime innocenti della guerra e del terrorismo islamico, e dall’altra dimenticare che il nostro Paese è leader in Europa nella vendita di pistole, fucili e munizioni.
Nel commercio di materiale bellico leggero, di cui l’Italia è principale esportatore per un ammontare di oltre 1,25 miliardi di euro nel solo 2015, il Medioriente svolge un ruolo centrale.
Insieme ai paesi dell’Africa settentrionale, all’Egitto di al-Sisi e all’Arabia Saudita, finanziatrice dell’Isis.
Il recente rapporto presentato a Brescia (capitale delle armi, un quarto delle vendite nazionali) dall’Opal, l’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e di difesa, mostra come l’Italia - pur con un leggero calo sull’anno precedente - nel 2015 ha registrato uno dei valori più alti di export di materiale bellico degli ultimi vent’anni. Tra i mercati di destinazione di pistole, fucili e munizioni made in Italy di tipo militare e comune, figurano appunto Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Algeria, Turkmenistan e perfino l’Egitto di Abd al-Fattah al-Sisi, a cui il nostro Paese ha venduto nel biennio 2014-15 30.000 pistole e revolver, e oltre 3.600 fucili e carabine, in dotazione alle forze di polizia e all’esercito.
Sempre lo scorso anno sono partiti alla volta dell’Arabia Saudita carichi di bombe utilizzate nella guerra in Yemen, oltre che armi e munizioni con destinazione Turkmenistan, uno tra i regimi più autoritari del mondo.
Di fronte al dilagare del terrorismo sostenuto dal Califfato islamico non basta solo aumentare le misure di sicurezza o mettere in campo interventi militari di contrasto. Va tagliato fino in fondo il cordone ombelicale che alimenta e sostiene lo sforzo bellico dell’Isis, cioè la potenza economica e finanziaria di cui dispone e la dotazione di armi e materiale d’attacco a cui ha accesso. Uno dei canali di triangolazione delle armi dal nostro Paese verso i fronti di guerra, e verso gli stessi attentatori, è l’Arabia Saudita, con cui tutto l’Occidente continua a mantenere rapporti d’affari e di commercio sostenuti. Non si può più far finta di niente.
È ipocrita da parte nostra piangere i connazionali rimasti vittime e le migliaia di civili indifesi sgozzati e trucidati dai miliziani dell’Isis o dai «martiri» della Jihad, senza riconoscere che ad armare quei folli in molti casi è l’Italia e la sua industria bellica. Uno sforzo di chiarezza e di coerenza, oltre che come atto di dignità, lo dobbiamo fare proprio per loro, in primo luogo per quelle donne e quegli uomini di cui ieri e venerdì si sono celebrati i funerali.