Razzismo, la vendetta sulle statue

Razzismo, la vendetta sulle statue

di Alessandro Tamburini

Siamo sempre più “civiltà dell’immagine” e la drammatica vicenda di George Floyd ne è l’ennesima dimostrazione. Sono centinaia ogni anno gli afroamericani vittime di razzismo negli USA, ma una ripresa video, la potenza visiva dell’immagine che inquadra il collo di Floyd schiacciato dal ginocchio del poliziotto, hanno dato all’episodio un’energia mediatica straordinaria. Ne è seguita un’emozione collettiva capace di colmare le metropoli statunitensi di una folla oceanica come ai tempi della guerra in Vietnam, e pare perfino di ribaltare i pronostici sulle imminenti elezioni presidenziali. Inedita è invece una delle forme che la protesta ha poi assunto, cioè quella di scagliarsi contro le statue di personaggi che del razzismo sono stati ritenuti colpevoli o complici. Il furore iconoclasta ha colpito Edward Colston, mercante di Boston arricchitosi anche col commercio di schiavi, poi il nostro Cristoforo Colombo.

Quindi si è propagato e ha trovato bersagli ovunque, dal Regno Unito alla Nuova Zelanda, degenerando in gesti al limite del grottesco, come quello di imbrattare Penny Lane, strada santuario dei Beatles, o a Torino la statua di Vittorio Emanuele II in qualità di presunto colonialista. Ben pochi fra quelli che hanno assunto ruoli di potere possono essere reputati del tutto esenti da colpe e abusi, non hanno preso parte a guerre, non si sono resi in qualche modo responsabili di vittime innocenti. Da un processo del genere, in Italia, forse uscirebbe indenne il solo Giuseppe Garibaldi, che vanta il maggior numero di statue nel nostro Paese.

La Storia non è nuova a fenomeni del genere, meglio comprensibili quando deflagrano alla fine delle dittature. Fu sempre un’ondata di emozione collettiva che spinse gli italiani nell’estate del ‘43 a scagliarsi contro i simboli del fascismo, all’indomani della sua caduta che peraltro non si rivelò definitiva come in quel momento si credeva, e resteranno impresse per sempre nella memoria di tutti le immagini che mostrano i berlinesi prendere a picconate il Muro. Di Hitler e Mussolini, di Stalin come di Gheddafi e Saddam, abbiamo visto crollare insieme al mito che incarnavano anche le statue e i busti, come se il marmo o il bronzo si tramutassero di colpo in gesso. Fra i casi più emblematici c’è quello di Oliver Cromwell, di cui venne riesumata la salma per sottoporlo al macabro rito dell’esecuzione postuma, ma fin dall’antichità infiniti altri episodi testimoniano la volontà di distruzione anche simbolica di imperatori, condottieri ed ex eroi, a seconda dell’alterna fortuna delle umane sorti. Cosi come sono numerosi i monumenti eretti e poi contestati in rapporto al periodo, da quello dedicato a Giordano Bruno in Campo dei fiori a Roma, al Monumento alla Vittoria che sappiamo quante polemiche scateni da sempre nel capoluogo altoatesino.

A seguito di un procedimento meno drastico ma incessante sono cambiati i nomi di vie e piazze in tutte le parti del mondo. La strada principale di Asmara, capitale del’Eritrea, è stata intitolata prima ad Haile Selassie, poi a Mussolini e infine alla Liberazione, che si è rivelata purtroppo illusoria. In ogni città italiana c’è una piazza che portava il nome di qualche regnante di Casa Savoia, per poi diventare Piazza della Repubblica, della Libertà o del Popolo, e dobbiamo augurarci di non dover assistere a un processo inverso.

Sulla base di meccanismi analoghi, anche se non sempre e quasi mai subito ce ne rendiamo conto, sottoponiamo a un costante processo di revisione ed epurazione anche la nostra storia personale. Ogni individuo nel corso della propria esistenza mitizza altri individui per poi ricredersi, arriva a esaltare una persona, per la quale non a caso si usa la metafora di “metterla su un piedistallo”, e a ripudiarla in seguito. Può trattarsi di un genitore, un amico, un amore, che a causa di un tradimento, una delusione, un abbandono, finiamo per ridimensionare o addiritura per rinnegare fino alla damnatio memoriae.

Nella «Coscienza di Zeno» Svevo ci mostra molto bene come il presente vinca sempre, come pieghi e trasformi la memoria in base alle proprie mutevoli esigenze, come il passato non sia un’entità stabile e fissata una volta per sempre, ma soggetto a rielaborazioni e reinterpretazioni continue.
Come per la grande Storia, anche nella storia personale di ognuno risulta a volte irrefrenabile la spinta alla rimozione, a dimenticare contraddizioni ed errori e a cancellarne le tracce, invece che affrontare una pur dolorosa elaborazione che ci porti a trasformare le esperienze in Esperienza e quindi a crescere in consapevolezza, anche attraverso l’accettazione di limiti e debolezze da cui è difficile liberarsi. Ma certo la Storia ha responsabilità maggiori del singolo individuo, col suo bisogno di raccontarsi la propria storia in un modo che gli permetta di continuare a vivere.

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