I primari trentini vanno alla guerra per salvare le pensioni d'oro
Il prelievo forzoso sulle cosiddette «pensioni d'oro», previsto dal governo per fare fronte alla difficile situazione finanziaria, finisce anche davanti ai giudici trentini. Ad impugnare la norma che ha introdotto il contributo di solidarietà per chi ha un reddito lordo superiore ai 90 mila euro una sessantina di primari e dirigenti dell'Azienda sanitaria già in pensione o che matureranno il requisito entro l'anno. Il ricorso, curato dagli avvocati Vittorio Angiolini, Luca Formilan, Alessandro Basilico e Michele Busetti, è stato depositato presso la Corte dei conti di Trento, competente in materia. I giudici della sezione giurisdizionale dovranno decidere se accogliere la richiesta dei ricorrenti, che ritengono la norma illegittima e in palese violazione con un precedente giudicato della Corte costituzionale e chiedono sia riconosciuto il loro diritto a percepire interamente il trattamento pensionistico maturato (tutelato - rileva il ricorso - anche dalla Costituzione). «Non ci lamentiamo delle nostre pensioni - chiarisce il presidente dell'Ordine dei medici Marco Ioppi (box a lato)- ma serve equità».
Nel mirino la legge di stabilità (la numero 147 del 2013), in particolare il comma 486 dell'articolo 1, che - a decorrere dal 1° gennaio 2014 e per un periodo di tre anni - stabilisce che «sugli importi dei trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie complessivamente superiori a quattordici volte il trattamento minimo Inps, è dovuto un contributo di solidarietà a favore delle gestioni previdenziali obbligatorie». La legge prevede un prelievo del 6% sull'importo di pensione eccedente 90.168,26 euro lordi annui e sino a 128.811,80 euro e del 12% per la quota parte di pensione eccedente l'importo da ultimo indicato e sino a 193.217,70. Infine «taglio» forzoso del 18% nei casi in cui l'importo lordo annuo superi di trenta volte il trattamento minimo previsto dall'Inps. La norma, nella prospettiva del governo, consentirà di fare arrivare risorse preziose da destinare all'esercito degli esodati. Lavoratori, evidenzia però il ricorso, traditi da quello stesso Stato che ora cerca di porre rimedio all'ingiustizia andando a colpire altri lavoratori ormai in pensione. E dunque commettendo un'altra ingiustizia.
Ma è anche sulla reale destinazione del denaro che i ricorrenti puntano il dito: la legge, infatti, non porrebbe alcun vincolo sull'utilizzo delle risorse, indicando un generico «anche al fine di concorrere al finanziamento degli interventi di cui al comma 191», dunque a sostegno di quei lavoratori che, dopo avere accettato di lasciare l'azienda anzitempo con la certezza di ricevere la pensione massimo entro due anni, si ritrovano ora disoccupati e senza assegno. Con quell'«anche», si mette in guardia, lo Stato vorrebbe tenersi le mani libere. Infine c'è la presunta illegittimità della norma, a fronte di un precedente giudicato della Corte costituzionale, che nel 2013 aveva censurato un intervento ritenuto analogo (l'articolo 18, comma 22 bis, del dl del 6 luglio 20011, numero 98). Un prelievo forzoso (anche se con alcune differenze), che secondo i ricorrenti è già stato dichiarato «illegittimo» per la sua disparità di trattamento, poiché andava a colpire solo alcuni tipi di reddito (quello da pensione) e non altri. Come dire, una solidarietà «imposta», ma non a tutti.
Nel frattempo, peraltro, la sezione giurisdizionale della Corte dei conti veneta ha già discusso un ricorso analogo (presentato da magistrati, professori e ufficiali) e deciso di rimettere gli atti alla Consulta, dichiarando rilevante e non manifestamente infondata la sollevata questione di legittimità costituzionale della norma.