Cadrobbi: «Per noi geologi da quel giorno cambiò tutto»
Il disastro della Val di Stava, che ha provocato la morte di 268 persone e la scomparsa di un intero paese sotto un’imponente slavina di fango, non ha rappresentato solo un punto di non ritorno in relazione alla costruzione dei depositi di inerti minerari, ma è stato anche uno spartiacque nella gestione ambientale e urbanistico del Trentino e di tutta Italia. Lo choc causato dall’avvenimento, ha infatti indotto gli esponenti politici locali e nazionali a definire una legislazione specifica in tempi rapidissimi, colmando un vuoto normativo che si protraeva dal secondo dopoguerra e che, in ultima analisi, è stata la ragione dell’irreparabile sciagura occorsa il 19 luglio del 1985.
A trent’anni di distanza, il geologo Lorenzo Cadrobbi, chiamato dal magistrato inquirente a poche ore dall’evento per porre in sicurezza l’area dei bacini, la cui instabilità rischiava di minacciare il lavoro e l’incolumità dei primi soccorritori, non lascia spazio a dubbi: la mancanza di una pianificazione territoriale adeguata, unita alla peculiarità del terreno ed all’errata costruzione degli argini dei bacini non poteva che portare all’inevitabile. Ma l’individuazione degli errori commessi - spiega l’esperto, oggi ancora in attività - hanno portato ad un radicale mutamento del modo di intendere il territorio su cui viviamo e in cui interagiamo.
Quella di Cadrobbi, che interverrà in una conferenza a Cavalese il 15 luglio (nell’ambito del convegno «Etica e responsabilità professionale»), è ancora oggi una testimonianza d’eccezione sui fatti di Stava, in quanto il professionista, all’epoca presidente del consiglio consultivo dell’Ordine dei geologi della Provincia di Trento, trascorre quasi due mesi sul posto con il compito di drenare l’acqua rimasta nei bacini di decantazione mineraria, stabilizzare il lungo tratto della valle interessato dalla slavina e attuare le prime misure di risanamento necessari per la sicurezza del territorio.
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Dottor Cadrobbi, di Stava si è discusso moltissimo, sono state azzardate congetture e ipotesi, si è scritto libri e realizzato documentari cinematografici. Tuttavia raramente si è parlato di come la tragedia sia stata la conclusione di un processo irreversibile avviato diversi decenni prima, ed un punto di partenza per una nuova legislazione in materia. Per capire dove siamo arrivati è necessario che ci spieghi come era la situazione prima del 19 luglio 1985?
«Prima di Stava ci si riferiva ad una legge emanata nel 1923, e che concerneva unicamente i rischi idrogeologici in ambiente forestale. Di fatto, fino all’anno seguente, nessuna legge provinciale o nazionale prevedeva studi specifici sulla conformazione e sulle dinamiche di trasformazione del terreno su cui si andava ad intervenire, se non in casi rari. Solo per le grandi opere pubbliche si chiedeva una perizia preventiva, rifacendosi proprio alla legge del ‘23».
Si è spesso detto che quello di Stava è stato un disastro geologico.
«In realtà non fu così: dei due bacini minerari presenti nella valle a partire dagli anni Sessanta non se ne occupò seriamente nessuno fino all’inevitabile catastrofe. Alcune questioni, relative ad esempio alla sopravvivenza di alcune specie ittiche nella zona, arrivarono all’amministrazione provinciale, ma rimasero di pertinenza di alcuni uffici specifici, che le trattarono in modo autonomo. Non vi era ancora la cultura di condividere informazioni potenzialmente utili a capire cosa stesse succedendo».
In che modo venne a conoscenza di quanto accaduto nella piccola valle vicina a Tesero?
«Inizialmente ricevetti delle notizie parziali: mi si riferì di un crollo di una diga. Al tempo protestai vivamente perché sapevo che nella zona non vi era alcuna diga. Più tardi scoprii si trattava di due bacini di decantazione mineraria. Ad ogni modo, a poche ore dal disastro, venni contattato da un messo del magistrato incaricato, che mi chiese se potevo raggiungere la zona per mettere in sicurezza l’area ed agevolare i soccorsi. Arrivai poco dopo l’esercito, e capii subito dove era passata la colata di fango dalla profonda traccia lasciata su un paesaggio alpino, per altri versi intatto. Mentre ancora si cercavano le vittime, mi sono messo subito all’opera, assieme ad una squadra di esperti, per rimodellare i bacini con il materiale rimasto, creando tre ordini di controllo delle acque per avvitare che la massa di materiale inerte si muovesse ancora. Sono rimasto nella zona per circa un mese e mezzo dopo l’incidente».
Cosa è dunque cambiato dopo Stava?
«A partire dal 1985, ci si accorse drammaticamente come ogni modifica, ogni intervento, ogni costruzione sul territorio comporti delle trasformazi/oni idrogeologiche, che in alcuni casi possono essere anche traumatiche per l’ambiente naturale. Proprio con Stava si pose il problema di un approccio etico nella gestione del territorio. La catastrofe cambiò quindi il modo di confrontarsi ed intendere il territorio. Si trattò di una repentina acquisizione di consapevolezza per un’intera nazione, che fino ad allora era priva di normativa adeguata».
Quale fu il primo passo verso questa nuova consapevolezza?
«Nell’ottobre del 1985 venne costituito a Trento il primo comitato interprofessionale delle professioni tecniche, comprendente rappresentanti di ingegneri, architetti, geologi, geometri, periti agrari, periti industriali e chimici. Nel gennaio dell’anno successivo, si tenne un convengo nazionale sul vincolo idrogeologico e sulla sua gestione, mentre già a febbraio la Provincia di Trento introdusse una serie di specifiche normative in relazione alla pianificazione urbanistica. Nell’agosto del 1988 venne poi promulgata la legge provinciale sulla valutazione dell’impatto ambientale».