Sangue infetto, donna risarcita Il Tar ordina al ministero di pagare

Sono passati oltre quarant’anni da quando, per una carenza di ferro, venne sottoposta ad una trasfusione di sangue. Era incinta e si rivolse ad un ospedale periferico. Per molto tempo la donna - oggi 65enne - non ci ha più pensato. Quell’episodio è rimasto un ricordo lontano. Almeno finché non è arrivata, come una doccia fredda, la diagnosi: era affetta da Epatite C. La scoperta, per caso, nel 2004, quando si è recata in ospedale per un banale taglio. Da allora è iniziato un calvario, culminato con un trapianto di fegato.

Ma come aveva contratto il virus? La commissione ospedaliera prima e i giudici poi hanno stabilito che la patologia è insorta in seguito ad una trasfusione di sangue infetto. Due sentenze hanno riconosciuto alla donna, assistita dall’avvocato Elisa Bruni, un risarcimento di 553mila euro. Ma il Ministero, nonostante la pronuncia della Corte d’appello di Trento dell’8 ottobre 2013 sia passata in giudicato, continua a fare orecchie da mercante. Per questo l’avvocato ha deciso di presentare ricorso al Tar di Trento per chiedere di ordinare al Ministero di ottemperare alle sentenze del Tribunale di Trento.

E i giudici amministrativi hanno accolto il ricorso: a questo punto il Ministero ha 40 giorni di tempo per provvedere al pagamento. In caso contrario i giudici nominano fino da ora un commissario ad acta: ma in quel caso lo Stato dovrà pagare anche una ulteriore somma a titolo di penalità di mora. Il Tar ha inoltre condannato il Ministero a pagare le spese di giudizio. La vicenda di questa donna è purtroppo simile a quella di molti altri pazienti infettati. Spesso il virus resta latente per molto tempo e possono trascorrere anche anni dal momento in cui viene fatta la trasfusione a quello in cui arriva la diagnosi.

Per le vittime di trasfusioni infette la legge 210 del 1992 ha introdotto indennizzi. Ma per molti pazienti contagiati il primo scoglio è quello di vedersi riconosciuto il diritto a ricevere questo «risarcimento» dallo Stato. In questo caso, però, la battaglia della donna è proseguita anche per ottenere in sede civile un risarcimento per i pesanti danni causati dalla trasfusione infetta, non ultima la necessità di sottoporsi ad un trapianto di fegato. E così, anche alla luce delle sentenze delle Sezioni unite, che nel 2008 hanno riconosciuto la responsabilità del Ministero per culpa in vigilando (in sostanza il fatto di non avere adempiuto alle direttive nel controllo delle sacche di sangue), la donna ha promosso la causa civile.

Le istanze chieste attraverso l’avvocato Bruni sono state accolte dai giudici di primo e secondo grado e - fatto non scontato - la richiesta del ministero di decurtare dal risarcimento riconosciuto alla paziente le somme versate a titolo di indennizzo, è stata respinta. Anche la sentenza di secondo grado, che il Ministero non ha impugnato in Cassazione, è passata in giudicato. Ma il paradosso è che, oltre ad avere una vita segnata, per ottenere i soldi che le spettano la donna è stata costretta a rivolgersi nuovamente ad un giudice.

comments powered by Disqus