Tumori dei bambini, quando la cura viene dalle parole
Ail Trentino Onlus, associazione italiana contro le leucemie e i linfomi, supplisce ancora una volta alle carenze del pubblico rinnovando il contratto alla psicologa Sara Bellone che svolge attività a favore dei bambini affetti patologie onco-ematologica nel reparto di pediatria del S. Chiara. Il contratto, che scade il 30 giugno 2016, sarà prorogato fino a fine anno a spese dell’associazione e la professionista potrà continuare ad effettuare le sue venti ore settimanali a favore dei piccoli pazienti e dei loro familiari.
«Si è provveduto all’assunzione di psicologi presso l’unità operativa multizonale di psicologia clinica del Distretto Centro Nord - si legge nella delibera dell’Azienda con la quale viene autorizzata l’attività - ma allo stato attuale, per quanto riguarda l’età evolutiva, convergono una serie complessa di esigenze sia di ambito ospedaliero e territoriale e l’unità operativa non è in grado di subentrare nell’immediato con continuità nell’attività necessaria presso l’unità operativa di pediatria». Da qui la decisione dell’Ail di proseguire con il finanziamento di questo progetto che ha l’obiettivo di supportare i bambini oncologici e le famiglie ma anche i piccoli pazienti che, per motivi di salute, si trovano ad affrontare situazioni di criticità.
L’utilità di questo servizio si vede dai numeri, ma anche dalle richieste che arrivano alla dottoressa Bellone. «Attualmente, tra nuove diagnosi e pazienti in follow up seguo una cinquantina di bambini oncologici e relative famiglie e poi una decina di pazienti con altre patologie, che possono essere malattie rare, degenerative, reumatiche», spiega la professionista.
L’età dei piccoli pazienti varia da pochi mesi fino a 16 anni, come muta anche la lunghezza del periodo in cui vengono seguiti. Considerato che l’aspettativa di vita, anche per patologie così gravi, è in crescita, assicurare un percorso meno traumatico possibile garantisce poi un futuro meno segnato dai traumi della malattia.
L’intervento della psicologa punta innanzitutto ad aiutare i medici nella comunicazione della diagnosi e le famiglie ad accettare una patologia molto grave che comporta una ristrutturazione dei rapporti sia tra genitori e figli che tra genitori stessi. Poi naturalmente la famiglia va anche aiutata a capire le reazioni che i piccoli pazienti potranno avere durante i vari momenti della cura e della malattia. L’isolamento, ad esempio, è un qualcosa che va aiutato affinché venga gestito in maniera corretta, come vanno gestite le emozioni legate alla malattie. La paura della morte, il senso di fallimento, il timore per una possibile invalidità, la crisi che colpisce i rapporti di coppia dovuta al cambiamento nei ruoli: stati d’animo che vanno supportati per portare un po’ di normalità in una situazione che normale non è. «Non deve poi mai mancare la progettualità, uno sguardo al futuro. Purtroppo accade che per la famiglia tutto si fermi e invece si deve cercare di garantire al bambino, nei limiti del possibile, una crescita normale. Non ci deve essere solo l’ospedale, le cure e la malattia. Quando il bambino non sta male ha bisogno di giocare, vuol vedere i suoi compagni, vuole ridere, vuole uscire. Si sente un bambino, non un malato. Per questo è importante avere un ponte con la scuola perché si senta sempre il bambino, partecipe del gruppo classe e mantenga vivo l’attaccamento».
Ogni storia è però a sé, ogni famiglia una galassia nella quale lo psicologo deve entrare in punta di piedi con grande rispetto.
Bastano queste poche indicazioni per capire come, per i bambini e i familiari, il sostegno psicologico sia un bisogno essenziale al pari delle medicine. «Un bambino può morire anche psicologicamente perché non riesce a elaborare alcuni traumi», ammette la psicologa sottolineando che in bambino è in generale portatore di un bisogno che è familiare, anche dei fratelli e dei genitori.
E come fare in modo che i malati di oggi non paghino da grandi le conseguenze di questi difficoltosi percorsi? «I bambini hanno risorse veramente incredibili - tranquillizza la psicologa - Un bambino piccolo, sotto i 5 anni ha una memoria cosciente di quanto accaduto che risulta scarsa. Ha memoria emotiva di quanto vissuto e gli rimane impresso come la famiglia ha reagito alla sua malattia. I bambini più grandi, invece, hanno anche memoria cosciente del dolore, dei luoghi, della sofferenza psicologica e quindi nel momento in cui escono da questo ?tritacarne? che sono le cure, sicuramente c’è un momento di rabbia, di impotenza. Ma i vissuti cambiano a seconda delle persone. Di certo tutti diventano adulti più consapevoli perché durante il periodo diventano più consapevoli e maturi, capaci di maggiore empatia con gli altri».
Importante sarebbe creare anche una rete esterna, luoghi e iniziative dopo i piccoli pazienti possano vivere esperienze di gioia, di vita, anche nella malattia affinché tutto non ruoti solo attorno ad essa, ma ci siano anche momenti di «normalità» condivisa con la famiglia ed altre persone.