«Papà, l'Alzheimer e gli anni difficili». La testimonianza di Claudia Crosignani
La testimonianza di Claudia Crosignani
«Mia madre conserva ancora i biglietti che papà Luigi scriveva per orientarsi in casa: li appiccicava sulla porta del bagno, della cucina... Abbiamo anche trovato uno stick sul quale aveva riportato il proprio nome e quello degli altri componenti della famiglia». Luigi Crosignani, residente da una vita a Predazzo, era consapevole che giorno dopo giorno la memoria lo stava abbandonando, per questo aveva deciso di aiutarsi. Ma l'Alzheimer ha avuto la meglio.
La sua è una vicenda del tutto simile a quella di migliaia di trentini, che con le famiglie affrontano le difficoltà della malattia considerata dagli scienziati «il male del secolo». A raccontare questa storia di vita - nella giornata mondiale dedicata proprio alla malattia di Alzheimer - è la figlia dell'uomo, scomparso nel novembre di due anni fa. Claudia è una donna forte, che gira il Trentino per parlare della malattia attraverso il suo libro «Goccioline di memoria» (edizioni Del Faro), con l'obiettivo di sensibilizzare la popolazione e le istituzioni.
Signora Claudia, in che modo si sono presentati i primi sintomi?
«Tutto è cominciato quando papà aveva circa 80 anni, ma avevamo associato le perdite di memoria all'età avanzata. Con il passare del tempo, il problema diventava sempre più evidente, e il papà stesso si rendeva conto che c'era qualcosa che non andava. Lo ricordo con le mani sul capo, mentre diceva di essere confuso. Quando si è rivolto al medico, è stato semplicemente tranquillizzato. Purtroppo, in molti casi i familiari che ho conosciuto in questi anni hanno incontrato medici di famiglia che non sono stati loro d'aiuto. Nel nostro caso, ad esempio, siamo stati indirizzati da un geriatra e successivamente da un neurologo solo dopo 5 anni».
E lì avete scoperto che Luigi era affetto da Alzheimer.
«Nessuno può affermare con assoluta certezza che un malato sia affetto da Alzheimer, prima di un'autopsia. Il papà aveva però tutti i sintomi, dalla perdita di memoria alla difficoltà nel riconoscere le persone, alle visioni, fino al vagabondaggio notturno».
Una situazione difficile anche sul piano emotivo.
«È stata dura, in particolare per la mamma che si è trovata ad affrontare la situazione da sola. Quando potevamo, mio fratello e io le davamo una mano, ma il papà, come quasi tutti i malati di Alzheimer, era una mina vagante. Passava da uno stato di tranquillità all'irrequietezza. Quasi non ci rendevamo conto dell'evolversi della malattia, pensavamo ad un peggioramento del carattere legato all'età».
Che lavoro faceva?
«Era maresciallo della Guardia di Finanza».
Aveva anche una buona rete di amici?
«Certo, era ben inserito nella comunità, seguiva molte attività. Ma evidentemente questo non basta a evitare l'Alzheimer».
Come descriveva questo suo problema di memoria?
«Inizialmente non esternava i suoi sentimenti, ma era spesso di malumore. Ricordo che un giorno in cui si trovava particolarmente in confusione, mi aveva detto "Sento che la mia memoria se ne sta andando come tante piccole goccioline", mimando questa sua sensazione con la mano. Non ho saputo dire nulla, forse perché impreparata. In quel momento sarebbe bastata una carezza o un abbraccio».
Quali erano i sintomi?
«Oltre alla facoltà di linguaggio, i malati perdono l'orientamento e la capacità di utilizzare gli oggetti più comuni. Non sempre quello che mio padre faceva aveva un senso: una volta era uscito di casa in piena notte. Mia madre, non trovandolo più, aveva allertato il soccorso alpino, ma papà aveva fatto comunque ritorno a casa autonomamente».
Quali sono i rischi per i familiari?
«Spesso si chiudono in loro stessi, anche per il timore che il malato si comporti in modo anomalo. L'Alzheimer è una malattia che fa vergognare, perché riguarda la mente e non il fisico. Per i miei genitori, i vicini di casa sono stati una presenza importantissima, e ci sono stati vicino in modo concreto. I vicini e qualche amico tenevano d'occhio gli spostamenti di papà in paese, senza che se ne accorgesse, e avvisavano la mamma».
Vi sareste aspettati maggiore sostegno dall'ente pubblico?
«La nostra vicenda risale a 15 anni fa, quando la malattia era poco conosciuta. L'associazione Alzheimer a Trento nasceva in quegli anni, ma la mia famiglia ed io non ne avevamo mai sentito parlare, mentre ora fortunatamente in valle esiste l'associazione Rencureme. I medici di base dovrebbero avere un ruolo più attivo, perché è con loro che i malati e i loro familiari si confrontano. L'ente pubblico dovrebbe invece promuovere maggiormente l'apertura di centri diurni specifici con personale specializzato, anche se ora qualcosa in più rispetto al passato è stato fatto e si sta muovendo».
Quando avete deciso di accompagnare papà in casa di riposo?
«Quando la situazione diventa difficile da sostenere, bisogna prendere la difficile decisione di far ospitare il malato in una struttura. Quello che si poteva fare è stato fatto, e dobbiamo renderci conto che abbiamo dei limiti, per cui è necessario farsi aiutare da chi ha esperienza e competenza. Un cambiamento drastico, che necessita di tempo per essere assimilato».