«Ho perso troppe cose belle È tutta colpa dell’anoressia»

Il racconto di Gioia 1980, una donna che combatte da 18 anni una battaglia contro la malattia

di Patrizia Todesco

Tutto è iniziato con una banale dieta perché sua sorella era più magra e lei la vedeva bellissima. Settimana dopo settimana la dieta e il peso hanno iniziato però a diventare un’ossessione fino alla diagnosi: anoressia. Gioia 1980, così vuole chiamarsi questa donna, all’epoca aveva appena 18 anni. Oggi ne ha 36, e tuttora, purtroppo, deve fare i conti con questo enorme problema che condiziona pesantemente la sua vita.

Eppure questa donna vuole gridare a gran voce la voglia di farcela e rincuorare le persone che, nella sua stessa situazione, dicono di voler mollare. «Sono arrivata a pesare 34 chili per 164 centimetri di altezza. Ora va un po’ meglio, sono 50 chili, e sto cercando di riprendermi alimentandomi un po’ di più, anche perché so che è l’unico modo per sopravvivere».

Eppure mangiare è un qualcosa che per questa donna non è ancora un gesto naturale. Riuscire a mandare giù 30 grammi di riso, per lei, può voler dire non mangiare più nulla per due giorni perché quel quantitativo, per il suo stomaco ridotto, è già troppo.

Dopo un ricovero in ospedale, nonostante il fisico debilitato che al momento le impedisce di andare a lavorare, questa donna ha molte speranze. C’è un compagno con il quale vuole costruire un futuro. C’è l’estrema determinazione a non far vincere la malattia. C’è la voglia di godersi la vita.

«Urlo che ce la possiamo fare perché vedo attorno a me persone che si stanno arrendendo. Una mia amica, ad esempio, sta combattendo l’anoressia da 5 anni, ha due bambini, ma dice di non farcela più. Io invece dico che dobbiamo reagire».

E per questo ha scritto una lettera. «Cara anoressia - scrive - a volte ci penso, tu cosa mi stai dando? E cosa mi hai dato? Mi hai fatto perdere tante cose belle della vita. Mi hai fatto perdere tempo che potevo passare in famiglia, con amici. Attimi in cui potevo essere altrove, magari in giro per il mondo. Invece no, mi hai tenuta lontana dalle braccia delle persone che amavo e che amo. Mi ha fatto perdere tante emozioni. Se solo riuscissi a pensare meno al mio aspetto esterno, se mi accettassi per come sono, se fossi priva di quel desiderio che spinge ad avere sempre di più da ogni cosa... quanta gioia avrei intorno».
Il ragionamento della ragazza è lucido, toccante, elaborato da una persona che vorrebbe tanto essere serena ma che ancora non è riuscita nell’obiettivo.

«La felicità non è fatta di momenti importanti e unici, esiste una felicità quotidiana data dallo “stare bene”. Riuscirei, “maledetta anoressia”, ad apprezzare al massimo ogni cosa. Ad esempio la carezza di una madre, passare del tempo con il mio compagno, sorridere davanti ad un cioccolatino, apprezzare il bello del mondo, la semplicità di un fiore che sboccia, il calore del sole d’state, lo splendore della neve in inverno.

La felicità esiste ovunque, possiamo scegliere di godercela, o di continuare a restare con i piedi nel fango. Facendoci portare via il sorriso, e a poco a poco, farci rubare la speranza di gioire. Da te “crudele anoressia”. Proviamo a chiudere gli occhi, e riaprirli cercando di vedere le cose belle che ci capitano. Capita che gli altri ci vedano sorridere, scherzare e pensino che vada tutto bene».

L’essere e l’apparire, il come si è e il come ci si mostra agli altri sembrano essere su due piani diversi. «Ci si mostra forti per non avere compassione, per non fare pietà, e intanto dentro si sente il vuoto. Però ho scoperto che si può soffrire, ma avere una voglia pazzesca di stare bene, una voglia matta di farcela a superare tutto.

Possiamo vincere, io ne sono convinta. Per questo grido a tutti: non mollate! Sono sicura che arriverà anche per noi il momento di essere belle dentro e fuori, e sorridere felici. Basta non smettere mai di crederci».

In Trentino, nel 2015, erano circa 300 i pazienti in carico al Centro dei disturbi del comportamento alimentare. Di questi 124 erano nuovi. L’età media è piuttosto bassa e le donne sono la stragrande maggioranza.

I dati evidenziano che ci sono persone che rimangono in cura per parecchi anni, ma che c’è anche un buon turn over con pazienti i quali, dopo un periodo di terapia, riescono a riprendere una vita normale.

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