Doppio lavoro, l'infermiera paga Deve risarcire 25mila euro all'Azienda sanitaria
Un giudizio penale, uno civile, una causa di lavoro e infine un procedimento davanti alla Corte dei conti. Un'infermiera dell'Azienda sanitaria avrebbe probabilmente rinunciato al secondo lavoro se avesse anche solo immaginato in quale mole di guai si stava cacciando: un contenzioso a più fronti durato quasi un decennio. L'ultimo capitolo in ordine di tempo è una sentenza della Corte dei conti che ha condannato l'infermiera a risarcire 25.000 euro all'Azienda sanitaria. Un salasso che rischiava di essere ancora superiore visto che la procura regionale aveva chiesto la condanna al pagamento di 62.275 euro (la prima citazione era per un danno contestato di 103 mila euro, pari cioè a tutti i compensi ricavati grazie al secondo lavoro). I giudici, però, hanno applicato il potere riduttivo considerando che il comportamento non era doloso, ma connotato da colpa grave, e che l'infermiera all'epoca dei fatti aveva avuto problemi di salute.
Il primo atto di citazione risale al dicembre del 2009. Il procedimento contabile era partito da una segnalazione fatta dalla stessa Azienda sanitaria che aveva scoperto come l'infermiera avesse prestato attività lavorativa esterna per un monte ore notevole (1148 ore nel 2007; 1.462 nel 2008; 381 nel 2009) presso case di riposo senza aver ottenuto la necessaria autorizzazione della stessa Azienda. La difesa, sostenuta dagli avvocati Maristella e Marcello Paiar, rispose che l'infermiera aveva agito in buona fede. In particolare era convinta di poter legittimamente operare anche all'esterno, interpretando come favorevole una risposta data dalla stessa Azienda alla sua richiesta autorizzativa, risposta che però non era affatto un via libera. E così l'infermiera, che aveva regolarmente indicato in dichiarazione dei redditi i guadagni extra, è finita in un mare di guai.
In sentenza i giudici ricordano che la normativa stabilisce per i dipendenti pubblici «il chiaro divieto di svolgere incarichi retribuiti che non siano stati conferiti o previamente autorizzati dall'amministrazione di appartenenza. Tale procedura autorizzativa, si ricordi, è strumentale alle verifiche del datore di lavoro pubblico, volte ad evitare situazioni di conflittualità». In particolare, «l'ente pubblico deve poter vagliare la compatibilità dell'impegno esterno con i carichi di lavoro del dipendente e della struttura di appartenenza; deve essere in grado di valutare la necessaria occasionalità/saltuarietà, ovvero la non prevalenza, della prestazione esterna sull'impegno derivante dall'orario di lavoro pubblico». Sgarrare porta a conseguenze pesanti, tra queste l'obbligo di riversare quanto guadagnato con il secondo lavoro nelle casse dell'amministrazione.
Il procedimento contabile ha avuto un iter tormentato per un conflitto sulla competenza. Il giudizio è rimasto di fatto sospeso fino ad una sentenza della Seconda Sezione centrale della Corte dei conti. Superato questo scoglio, nel marzo 2016 il giudizio ripartiva davanti alla sezione giurisdizionale. Nel frattempo l'infermiera aveva impugnato senza successo il suo licenziamento, ma era stata assolta con sentenza definitiva dall'accusa di truffa per insussistenza del fatto. Quel giudizio penale favorevole però non ha fatto venir meno l'accusa di danno erariale.
Secondo i giudizi contabili «va esclusa la sussistenza dell'elemento del dolo». Nel procedimento penale è infatti emerso come l'infermiera «non abbia agito di nascosto, non abbia prodotto falsi certificati per assentarsi, abbia formulato una richiesta nel luglio 2005, seppur generica, all'Azienda Provinciale Servizi Sanitari di Trento per essere autorizzata ad assumere gli incarichi esterni presso le Rsa (Residenze sanitarie anziani) ed abbia, altresì, reso ostensibili nelle dichiarazioni dei redditi, che venivano controllate dall'Amministrazione di appartenenza, la provenienza delle risorse economiche derivanti dal lavoro aggiuntivo». Invece «deve ritenersi pienamente integrato, in fattispecie, il presupposto della colpa grave». Questo perché la signora (omissis) «continuava a svolgere l'attività esterna nell'errata convinzione, frutto di un'inescusabile negligenza, di essere stata autorizzata solo per aver presentato una generica richiesta, nel luglio 2005, e senza più preoccuparsi di procedere secondo le dettagliate indicazioni contenute nella nota dell'Azienda sanitaria». Attenzione dunque, la mancata diligenza e l'ignoranza delle norme che disciplinano il lavoro esterno non mette al riparo il dipendente pubblico da pensanti conseguenze. Come i 25 mila euro che l'infermiera deve ora versare al suo ex datore di lavoro.