Operaio minaccia il superiore Licenziato in tronco
Litigare sul lavoro con il proprio superiore è fisiologico, ma attenzione a tenere a freno la lingua. Se gli animi si scaldano e dalla vivace dialettica si passa alle minacce, si rischia il licenziamento in tronco. Lo ha imparato a sue spese un operaio di un’azienda del Perginese che ha perso il posto a 8 anni dall’assunzione.
La vicenda è delicata e di complessa lettura giuridica, come confermano gli alterni giudizi dati dai giudici che si sono occupati del caso. A conclusione della fase sommaria, con ordinanza dell’ottobre del 2017, il ricorso del dipendente venne respinto e il licenziamento confermato. La decisione fu però ribaltata dalla sentenza del Tribunale di Trento che, nel giugno del 2018, condannò l’azienda a reintegrare l’operaio a cui veniva anche riconosciuta un’indennità risarcitoria in misura non inferire a 12 mensilità. Ma i colpi di scena non erano finiti: con sentenza delle settimane scorse la Corte d’appello (presidente Anna Maria Creazzo) ha riformato il giudizio del Tribunale accogliendo pressoché in toto le ragioni dell’azienda, difesa dall’avvocato Filippo Valcanover. Secondo quest’ultimo giudicato i licenziamento era dunque legittimo. Il «capo» non può essere minacciato, neppure utilizzando frasi di non particolare pesantezza.
Per capire i contorni della vicenda occorre tornare al 29 marzo del 2017. Tutto nasce da una conversazione banalissima (anzi i giudici la definiscono addirittura «surreale») tra la responsabile amministrativa dell’azienda e l’operaio. Il tema del confronto era la sostituzione della chiavetta per la macchina automatica del caffè. L’operaio a fronte della vecchia chiavetta voleva di ritorno 5 euro che sosteneva di aver versato a titolo di deposito cauzionale. L’impiegata replicava che il dipendente aveva ricevuto la precedente chiavetta, come da prassi aziendale, senza pagare nulla. Questo bisticcio, valore pochi euro, porterà al licenziamento del dipendente.
La minaccia - precisa la Corte d’appello - sarebbe consistita nell’aver chiuso la porta del’ufficio e nell’aver pronunciato la frase «prima o poi, in sede più consona, dovrò farti un discorso...», puntando il dito contro l’interlocutrice. Per i giudici la minaccia era seria tanto che la responsabile avrebbe ripetutamente invitato l’operaio ad uscire dal suo ufficio, invito accolto solo quando la donna prese in mano il telefono per chiamare l’amministratore.
Il surreale bisticcio per la chiavetta è stato ricostruito parola per parola perché l’operaio, senza darlo a vedere, aveva registrato la conversazione. Questa fonte di prova, depositata solo dopo aver perso il giudizio sommario, alla fine si è rivelata un autogol: secondo i giudici la registrazione nascosta dimostra infatti l’intenzione di cercare lo scontro e la volontà di procurarsi una qualche prova di condotta scorretta da parte della collega.
Secondo la corte la «condotta di prevaricazione che ha turbato la serenità di altra dipendente, oltretutto gerarchicamente sovraordinata, è indicativa di un completo disinteresse al rispetto di regole di correttezza nei rapporti interpersonali e deve quindi ritenersi sussistente il fatto contestato di aver commesso “gravi infrazioni alla disciplina nel luogo di lavoro”». La posizione dell’operaio era aggravata da alcuni, non gravi ma ripetuti, precedenti disciplinari. Secondo i giudici sussiste «un inadempimento di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro avendo la condotta addebitata, per il contesto descritto e la plurima recidiva anche specifica, inciso irrimediabilmente sull’elemento fiduciario del rapporto». Dunque licenziamento confermato per l’operaio, chiamato anche a pagare le spese giudiziarie sostenute dall’ex datore di lavoro (3.600 euro).