Sabri, il detenuto che sognava un Natale con sua figlia
Sabri El Abidi sognava di passare il Natale con sua figlia. Invece, nella notte tra venerdì e sabato, il 32enne tunisino - che pure seguiva un percorso trattamentale e sperava nella liberazione anticipata - si è tolto la vita nella sua cella. Il suicidio ha innescato la rivolta di oltre 200 detenuti. Qui di seguito pubblichiamo il toccante ricordo dei docenti del «Rosmini» di Trento che insegnano all’interno della Casa circondariale nei percorsi di alfabetizzazione, scuola media, corso alberghiero e liceo economico sociale. Sabri da quasi 3 anni era un loro studente.
Vorremmo dare voce al nostro dolore, perché oltre al fatto che Sabri non ci sia più, riteniamo ingiusto che nessuno sappia com’era veramente questo ragazzo, con i suoi difetti, ma anche un cuore pieno d’amore per la sua bambina e per gli altri.
Venerdì era l’ultimo giorno di scuola e avevamo organizzato un saluto natalizio. Appena l’ho visto mi ha detto: «Come sto con la barba? A mia figlia piacerà la barba, speriamo...» «Ma sì, Sabri dirà che bel papà!». Si è scusato per le assenze, non aveva la testa... Gli ho detto: «Sabri vieni a scuola almeno stai con noi e non in cella da solo».
Poi mi ha chiesto di andare in cucina a vedere cosa avevano preparato con la classe seconda alberghiero. Con il permesso di un agente e dello chef mi ha mostrato i dolci, come un esperto del mestiere. Poi ha cominciato dirmi: «Non ce la faccio più, voglio vedere mia figlia, non mi fanno sapere niente». Era in attesa della concessione della liberazione anticipata, che se fosse arrivata, gli avrebbe permesso di uscire libero. Ho cercato di sostenerlo, di tranquillizzarlo. Gli ho detto che sicuramente gli ultimi giorni sono i più duri, gli ho citato un proverbio napoletano e lui me ne ha detto uno simile in tunisino. Poi lo chef sorridendo gli ha detto che doveva lavorare, e lui prometteva di andare, ma voleva parlare ancora. L’ho abbracciato e gli ho detto: «Ti prego non fare sciocchezze», pensando ai gesti autolesionisti che altre volte aveva fatto.
Ho cercato di farlo sfogare, parlare. Poi nel corridoio mi ha chiesto di aiutarlo a scrivere un testo e leggerlo al microfono «Quando sono a scuola io non mi sento più solo». Come si dice quando una persona fa qualcosa, e questo lo fa diventare migliore? Forse riscatto. La scuola per lui era un riscatto.
Sabri venerdì mattina, vestito da cuoco, orgoglioso nella sua divisa, ha voluto dire parole di ringraziamento. Eppure Sabri in questi due anni ci ha fatto tanto “tribolare”. Raramente studiava quello che doveva studiare ed era dove doveva stare. Spesso entrava in aula e chiedeva se poteva sedersi anche se quella non era la sua classe. Studiava poco, ma poi chiedeva insistentemente di poter recuperare, anche in estate. Sabri voleva imparare. Sabri voleva essere valorizzato.
A Sabri piaceva tanto mangiare, oltre che cucinare. In cucina amava storpiare il nome dei piatti. E ci riusciva. E ci faceva ridere. Sabri aveva slanci di affetto e di fiducia e qualche volta cadeva nella disperazione. Tante volte ci ha fatto preoccupare perché sfogava le sue delusioni sul suo corpo. Sabri faceva tante cose di testa sua. Talvolta invece si lasciava accompagnare.
Sabri voleva rivedere sua figlia, assolutamente, prima di Natale. «Ti porto un biglietto di Natale per la tua bambina, Sabri?» «No professora, grazie, quest’anno il Natale lo passo con la mia bambina». È a lei, soprattutto, che va il pensiero in questo Natale. Non è questo il modo di perdere il proprio papà.
E poi parlavi della tua mamma, della Tunisia, della pizzeria che avresti aperto una volta fuori. E un pensiero alla sua mamma, la persona che più gli è stata vicina in questi anni di carcere, diceva lui. Perché non è questo il modo di perdere nemmeno un figlio.
È un vero dramma che il tempo del carcere continui ad essere, per la maggior parte, tempo di punizione, frustrazione e ingiustizia. Bisogna fare di più. Non possiamo restare a guardare.
Intanto Sabri ti salutiamo. Ci mancherai. Molto.